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Surgenor restò da parte, in silenzio, mentre una parte degli apparecchi di ricerca del Modulo Cinque venivano estratti per introdurre due posti supplementari. Non appena i lavori furono terminati, montò sul pesante veicolo e lo fece scendere dalla rampa di sbarco della Sarafand a velocità elevata. La distanza fra l’astronave cartografica e l’Admiral Carpenter, un tozzo vascello militare, non era molta, ma Surgenor decise di percorrerla usando la propulsione a sospensione, e arrivò alla nave fra spettacolari sbuffi di sabbia finissima, lasciando una cicatrice rosso-sangue sul deserto bianco, che si rimarginò lentamente, man mano che la sabbia fototropica tornava al suo colore superficiale.

Una delle guardie ai piedi della rampa dell’Admiral Carpenter gli indicò con la mano dove doveva parcheggiare e disse qualcosa nella radio da polso. Surgenor portò il Modulo Cinque nel punto indicato e spense i motori, facendo posare il veicolo a forma di scarafaggio sulla pancia. Aprì il portello e l’aria calda e secca del pianeta Saladin riempì la cabina.

— Il maggiore Giyani e i suoi uomini arriveranno fra un paio, di minuti — gridò la guardia.

Surgenor rispose con una parodia di saluto militare e si sprofondò ancor di più nel sedile. Sapeva di comportarsi in modo infantile, ma era ormai un mese che la Sarafand era atterrata sul pianeta, e Surgenor non era mai rimasto per tanto tempo con le mani in mano da quando si era arruolato nel Servizio Cartografico. L’attesa, lo spreco della magra razione di tempo accordata ad ogni essere umano, l’avevano reso pessimista e irritabile. Viaggiare non aveva per lui il fascino di un tempo, e tuttavia non era più capace di restare fermo in un posto.

Guardò con risentimento il deserto bianco, splendente sotto il sole, che si stendeva fino all’orizzonte, e si chiese come aveva potuto sembrargli bello la prima mattina che l’aveva visto. Certo, quella era stata una giornata in cui il vento tracciava disegni strani e continuamente mutevoli, con sfumature di bianco e rosso, mentre, soffiando fra le dune, esponeva gli strati di sabbia sotterranei che cambiavano subito colore sotto la luce del sole.

La Sarafand era atterrata con lo scopo di portare a termine uno dei soliti rilievi cartografici. Non c’erano difficoltà di rilievo per quanto riguardava il terreno, perciò i moduli avrebbero potuto terminare il lavoro in tre giorni, se non si fosse verificato un evento del tutto imprevedibile.

Tre persone dell’equipaggio avevano riferito di aver avuto delle apparizioni.

Le apparizioni avevano assunto due forme differenti: di esseri viventi e di edifici. Erano semi-trasparenti e svanivano come fanno di solito i miraggi, tranne per il fatto che un miraggio deve avere un’origine reale, da qualche parte. E i rilievi orbitali avevano stabilito che Saladin era un mondo morto, dove non esisteva, né era mai esistita in passato, vita intelligente.

— Sveglia, autista — disse il maggiore Giyani. — Possiamo partire.

Surgenor alzò la testa con voluta lentezza e guardò l’ufficiale baffuto, dalla carnagione scura, in piedi sull’entrata del modulo. L’uomo riusciva ad avere un’aria lisciata nonostante indossasse la divisa da combattimento. Alle sue spalle c’era un tenente dalla faccia accuratamente rasata, con un’espressione impacciata negli occhi azzurri, e un sergente dalla corporatura massiccia che portava un fucile.

— Non possiamo partire finché non siete entrati tutti — fece osservare Surgenor, senza nascondere la sua irritazione per il fatto di essere trattato come un autista. Attese che il sergente e il tenente si fossero sistemati nei due sedili posteriori, e il maggiore in quello al suo fianco. Il sergente, che a quanto ricordava Surgenor doveva chiamarsi McErlain, non posò a terra il fucile, ma lo tenne in grembo.

— Questa è la nostra destinazione — disse Giyani, porgendo a Surgenor un pezzo di carta su cui erano segnate delle coordinate.

— In linea retta la distanza è di circa…

— Cinquecentocinquanta chilometri — disse Surgenor, che aveva compiuto un rapido calcolo mentale.

Giyani sollevò le sopracciglia e scrutò Surgenor. — Vi chiamate Dave Surgenor, vero?

— Sì.

— Bene, Dave. — Giyani fece un largo sorriso, che voleva dire: «Vedi come so ammansire i civili permalosi?», poi indicò le coordinate. — Ci arriveremo per le otto, ora di bordo?

Surgenor decise, troppo tardi, che preferiva il Giyani ufficiale. Mise in moto il modulo, usando il propulsore a sospensione, e fece rotta verso sud. Durante le due ore di viaggio la conversazione fu piuttosto scarsa, ma Surgenor si accorse che Giyani si rivolgeva al sergente McErlain con disgusto neppure mascherato, mentre Kelvin, così si chiamava il tenente, evitava addirittura di parlare con lui. Il sergente rispondeva a Giyani con monosillabi e quasi con insolenza. L’atmosfera tesa fece ricordare a Surgenor le chiacchiere che aveva sentito su McErlain, al tavolo della mensa, ma la maggior parte dei suoi pensieri rimaneva concentrata sull’obiettivo della spedizione.

Quando i primi rapporti sulle apparizioni erano pervenuti ad Aesop, era stato eseguito un controllo sulle mappe geodetiche che il cervello del computer stava elaborando.

Erano apparse tracce evidenti di ristrutturazioni condotte trecentomila anni prima su strati rocciosi, in zone che corrispondevano esattamente a quelle dov’erano apparsi i miraggi.

A questo punto Aesop aveva ritirato tutti i moduli, in obbedienza alle limitazioni imposte dallo statuto del Servizio Cartografico, e aveva spedito un messaggio tachionico al Quartier Generale Regionale. Il risultato fu che l’incrociatore Admiral Carpenter, che stava attraversando quella zona di spazio, arrivò due giorni più tardi e assunse il comando.

Uno dei primi ordini del colonnello Nietzel, comandante delle forze di terra, fu che Aesop doveva considerare segrete tutte le informazioni su Saladin, ed era tenuto a non divulgarle fra il personale civile. In teoria, quindi, l’equipaggio della Sarafand avrebbe dovuto essere completamente all’oscuro degli eventi successivi, ma fra gli uomini delle due navi vi era qualche contrasto, e Surgenor aveva raccolto alcune voci.

Si diceva che i satelliti-spia messi in orbita dalla Admiral Carpenter avessero registrato migliaia di materializzazioni parziali di edifici, di strani veicoli, di animali e di esseri vestiti pesantemente. Si diceva anche che alcuni degli edifici e delle figure avessero raggiunto una solidità totale, ma che erano svaniti prima che gli aerei militari potessero raggiungerli. Era come se su Saladin ci fosse un’altra civiltà, che, all’arrivo degli stranieri, si era ritirata dietro una barriera incomprensibile decisa a non avere contatti.

Surgenor, che non aveva mai visto nessuna apparizione, non aveva prestato molta fede alle voci, ma aveva visto gli aerei della Admiral Carpenter partire sibilando a velocità supersonica, per tornare a mani vuote. E sapeva che il computer centrale della nave lavorava ventiquattr’ore su ventiquattro per elaborare l’immensa quantità di dati che giungevano dai satelliti.

Sapeva anche che le coordinate che gli aveva fornito Giyani corrispondevano a una delle zone, segnalate durante la prima esplorazione, in cui la roccia era stata anticamente scavata.

— Quanto manca? chiese Giyani, mentre il sole scendeva a sfiorare una lontana catena di colline, sull’orizzonte occidentale.

Surgenor gettò un’occhiata alla mappa-radar, che con l’avvicinarsi dell’oscurità aveva cominciato a risplendere debolmente. — Un po’ meno di trenta chilometri.

— Bene. In perfetto orario. — Giyani appoggiò la mano al calcio della pistola.