Gli altri annuirono, e tutti insieme tornarono alla normalità illuminata della sala mensa, lontano dalla pressione psicologica del cielo straniero. Surgenor prese la scaletta principale e raggiunse il corridoio curvo che dava accesso alle cabine. Per convenienza burocratica, i numeri delle stanze seguivano quelli dei moduli a cui erano assegnati i vari membri dell’equipaggio. Surgenor, occupando il posto di sinistra del Modulo Cinque, aveva la cabina numero nove.
Passò a fianco della prima stanza, dove, negli ultimi cinque anni, era solito entrare per chiacchierare con Mare Lamereux, e gli venne in mente che doveva delle scuse a Christine Holmes. La porta era chiusa, ma il segnale di “non disturbare” non era acceso, per cui non c’era modo di sapere se la donna fosse dentro o no. Surgenor esitò, poi bussò al pannello di plastica, e sentì una risposta indistinta che sembrava un invito ad entrare. Girò la maniglia, aprì la porta e venne accolto da un’imprecazione sorpresa. Christine, nuda fino alla vita, era seduta sull’orlo del letto, con le mani incrociate sui seni.
— Scusa! — Surgenor richiuse la porta e attese nel corridoio, rimpiangendo di non essere andato subito nella sua cabina.
— Cosa ti è venuto in mente? — Christine si era rimessa la camicetta quando riaprì la porta. — Cosa vuoi? Surgenor cercò di sorridere. -Non mi inviti ad entrare?
— Cosa vuoi? — ripeté lei impaziente, ignorando la richiesta.
— Ecco… volevo scusarmi.
— E per che cosa?
— Per quello che è successo alla riunione. Io poi, non sono stato di molto aiuto.
— Non ho bisogno di nessun aiuto. I buffoni come Narvik e Schilling non mi fanno paura.
— Ne sono convinto, ma non è questo il punto.
— No? — Christine sospirò, e Surgenor sentì l’odore di sigaretta nel suo fiato. — Va bene. Hai fatto le tue scuse, e adesso ci sentiamo tutti meglio. Ti dispiace se vado a dormire un po’? — Chiuse la porta, e si udì il rumore del chiavistello, tirato con più forza del necessario. Il segnale “non disturbare” si accese.
Surgenor si massaggiò la mascella pensoso, continuando verso la propria stanza. Quando Christine Holmes era arrabbiata, come senza dubbio era in quel momento, sapeva essere dura e sferzante come qualunque uomo, ma colta di sorpresa, aveva reagito in maniera tipicamente femminile. Quell’antico gesto di difesa, il nascondere i seni agli occhi di un estraneo, indicava la consapevolezza della propria sessualità, indicava che lei si considerava ancora una donna. Surgenor cercò di immaginare la Christine che conosceva, con le ossa grosse e la carnagione olivastra, le mani callose e la sigaretta in bocca, pronta ad affrontare alla pari un mondo di maschi, nei panni di quella che doveva essere una volta, prima che la vita la colpisse così duramente; ma non riuscì a farsene un’immagine diversa. Rendendosi conto di quanto fosse inutile quell’esercizio, smise di pensare a lei ed entrò nella sua cabina.
Si tolse gli stivali e si stese sul letto, permettendo a se stesso di pensare al fatto che era naufragato a trenta milioni di anni-luce da casa Era forse peggio che essere naufragato a un solo anno-luce? Razionalmente no; ma la vita non era fatta solo di razionalità. Lui non esisteva come puro intelletto, e il freddo dello spazio intergalattico gli era penetrato nelle ossa, nelle viscere, lo sentiva inaridirgli lo spirito, e gli sembrava di non poter più ridere, dormire tranquillo, o rigenerarsi alle fonti dell’amicizia umana.
16
L’elenco comprendeva cinque soli del tipo G2, tutti nel raggio di sei anni-luce, i cui profili gravitazionali mostravano la presenza di pianeti. Uno di questi, indicato da Aesop come Obiettivo Uno, pareva possedere almeno trenta pianeti che gli roteavano attorno come elettroni. — Questo rende le cose più semplici — disse Surgenor, guardando la stella che Aesop aveva contrassegnato con un cerchio verde, intermittente. — Prima arriviamo all’Obiettivo Uno e cominciamo a cercare la sistemazione migliore, meglio sarà.
Gillespie annuì. — Sta circolando un sacco di liquore nella mensa.
Inaspettatamente, Mike Target! si mostrò dubbioso. — Non sono così sicuro del programma predisposto da Aesop. Ci ho pensato tutto il pomeriggio, e qualcosa mi dice che dovremmo lasciare subito questo ammasso e ricominciare da zero.
— Qualcosa ti dice? È un po’ poco, Mike. Anche se salterà per aria qualche stella, fra un secolo o due, a noi che importa?
— Lo so, ma… — Targett si rannicchiò nella sua poltroncina, guardando oltre la balaustra che sembrava sospesa sull’infinito. — Ho la sensazione che ci sia qualcosa di inquietante in questa regione.
Surgenor sapeva che Mike Targett, un giocatore testardo, non era il tipo da farsi influenzare dagli stati d’animo o dal misticismo. — Ma se Aesop pensa che sia tutto a posto…
— Aesop è un computer, e questo io lo so meglio di chiunque altro, ed è programmato. Certo, i suoi programmi sono vasti, complessi, sofisticati, auto-rivedibili, allargabili, e tutto quello che volete, ma sono pur sempre programmi, e perciò gli permettono di affrontare solo quello che è concepibile. Messo di fronte all’inconcepibile, Aesop non è più degno di fiducia.
— Che cosa c’è di così inconcepibile in un ammasso in condensazione?
— Come faccio a rispondere? — replicò Targett. — Per quel che ne sappiamo, siamo capitati in una zona in cui il tempo si muove alla rovescia. Forse l’ammasso in realtà si espande, se visto nel tempo normale.
— Questo sì che è inconcepibile. E non mi riesce di mandarlo giù.
— Dovremmo essere in grado di individuare i resti dell’esplosione — disse Gillespie.
— Davvero? Ma le nostre costanti di base non sono più… -Targett si interruppe, con un sorriso amaro. — Non ci credo neanch’io che ci troviamo in una zona di tempo invertito. Stavo solo cercando di darvi un esempio di qualcosa al di fuori della competenza di Aesop.
Surgenor si schiarì la voce. — Stiamo perdendo tempo, Mike. A meno che tu non abbia obiezioni più concrete, proporrò che la nostra prossima destinazione sia l’Obiettivo Uno.
— Avete sentito la mia opinione.
— D’accordo allora — disse Gillespie. — Voto anch’io per l’Obiettivo Uno, perciò possiamo metterci al lavoro. Farò venire gli altri, mentre tu lo dici ad Aesop.
Le dodici poltroncine della sala d’osservazione si riempirono in poco tempo. Ora che lo shock iniziale era passato e vi era stato il tempo per adattarsi, le vere reazioni dei vari membri dell’equipaggio al loro destino stavano delineandosi chiaramente. Alcuni si erano attaccati alla bottiglia, per mantenere una specie di tetra allegria, alcuni ostentavano distacco, mentre altri ancora cercavano tutte le occasioni per darsi da fare. L’atmosfera generale era calma, consapevole della gravita della crisi, cosa di cui Surgenor era contento, anche se sospettava che in qualche modo Aesop non fosse estraneo alla cosa. Se dei tranquillanti erano stati immessi nel cibo e nell’acqua, l’operazione era stata eseguita con discrezione ed efficacia.
Surgenor teneva gli occhi fissi sulla stella che costituiva il loro obiettivo, preparandosi mentalmente al momento in cui si sarebbe trasformata da un lontano punto di luce al disco abbagliante di un sole. La distanza era minore di quattro anni-luce, il che significava che Aesop era in grado di portarli in mezzo al sistema planetario in un solo balzo accuratamente calcolato. Era questo uno dei motivi per i quali aveva preferito restare in un ammasso pieno di stelle: la maggior parte dei tempi di viaggio veniva usata per l’avvicinamento ai pianeti nello spazio normale, e poiché le riserve di cibo erano limitate, c’era un vantaggio evidente nel fare balzi molto corti e precisi, proprio nel cuore di un sistema.