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Era il guaio della propulsione Beta, detta anche comunemente Istant-Distant: era il primo mezzo di trasporto che non allargasse gli orizzonti mentali. Voysey si trovava a cinquecento anni-luce dalla Terra, ma poiché quella distanza non l’aveva percorsa faticosamente, passando da una stella all’altra, mentalmente era ancora dentro l’orbita di Marte.

Nuove luci cominciarono ad apparire sugli schermi del Modulo Cinque, mentre gli altri veicoli sbucavano da dietro le colline o dalle pieghe del terreno. Si avvicinarono, finché furono in sette attorno alla piramide nera, appena visibile, della Sarafand. Surgenor osservò le loro mosse con interesse, sperando che l’intruso commettesse l’errore di avventurarsi oltre la linea invisibile dei mille metri.

Il Capitano Aesop non parlò durante la manovra di avvicinamento, ma dall’altoparlante piovevano in continuazione i commenti dei vari equipaggi. Alcuni, ritrovandosi ancora vivi e vegeti man mano che i minuti passavano, cominciarono a scherzare sulla situazione. Le battute cessarono quando Aesop finalmente parlò dall’alto della sua sicura postazione operativa, a sessanta metri dal livello del suolo.

— Prima di ascoltare i rapporti individuali e gli eventuali suggerimenti — disse con voce calma — desidero ricordare a tutti l’ordine di non avvicinarsi alla nave a meno di mille metri. Qualunque modulo cerchi di farlo verrà distrutto senza preavviso. Possiamo procedere con la discussione.

Voysey sbuffò risentito. — Verranno serviti tè e pasticcini! Quando torno a bordo, vado da Aesop con una chiave inglese e gli spacco. A sentirlo, si direbbe che sia una specie di indovinello.

— È il suo modo di guardare le cose — disse Surgenor. — In questo caso, direi che è un vantaggio.

La voce esile e sicura di sé di Pollen, del Modulo Quattro, fu la prima a rompere il silenzio radio che era seguito al comunicato della nave. Pollen era al suo ottavo viaggio, e stava scrivendo un libro sulle sue esperienze, ma non aveva mai permesso a Surgenor di ascoltare le note registrate o di leggerne le parti scritte. Surgenor aveva il sospetto che fosse dovuto al fatto che lui vi era descritto come la caricatura del Membro Anziano.

— Da come la vedo io — cominciò Pollen — il problema si presenta come un classico esercizio di logica…

— È contagioso: parla come Aesop… — grugnì Voysey.

— Dacci un taglio, Pollen — gridò una voce irritata.

— Va bene, va bene. Ma resta il fatto che possiamo risolverlo con la logica. I parametri fondamentali del problema sono questi: ci sono sei moduli d’esplorazione, identici e privi di segni di riconoscimento, e fra di loro una settima macchina…

Surgenor premette il pulsante del comunicatore, mentre un’idea che si era andata formando nella sua mente prendeva forma improvvisamente. — Non esattamente — disse.

— Chi ha parlato? Dave Surgenor? — Pollen sembrava irritato per l’interruzione. — Come stavo dicendo, dobbiamo usare la logica. C’è una settima macchina, e…

— Non esattamente.

— Sei proprio Surgenor, vero? Cosa vuoi, Dave?

— Voglio aiutarti ad essere logico, Clifford. Non c’è una settima macchina. Ci sono sei macchine e un tipo molto particolare di animale.

— Di animale?

— Sì. Un Uomo Grigio.

Per la seconda volta nel giro di un’ora, l’altoparlante non riuscì a sopportare il carico che gli venne imposto. Surgenor attese impassibile che il baccano si calmasse. Diede un’occhiata alla faccia di Voysey e si chiese se anche lui avesse avuto la stessa espressione quando aveva sentito parlare per la prima volta degli Uomini Grigi.

Le storie erano sparse su un ampio raggio, ed erano difficili da isolare dalle fantasie manichee che abbondavano in molte culture. Erano state raccolte qua e là, su mondi dove la memoria razziale dei nativi affondava di più nel passato. Vi era un’infinità di varianti, ma era sempre riconoscibile un tema di fondo: quello degli Uomini Grigi e della grande battaglia combattuta e persa contro i Bianchi. Nessuna delle due razze aveva lasciato tracce tangibili della propria esistenza a disposizione delle schiere tardive di archeologi terrestri. Restavano solo i miti.

L’indizio più significativo, per chi avesse l’orecchio sufficientemente esperto, era questo: che indipendentemente dalla forma degli esseri che raccontavano il mito, e sia che camminassero, nuotassero, volassero o strisciassero, il nome che davano agli Uomini Grigi era lo stesso che usavano per designare se stessi, spesso accompagnato da un aggettivo che suggeriva anonimato, indifferenziazione o mancanza di forma.

— Che cosa diavolo sarebbe un Uomo Grigio? — Era Carlen, del Modulo Tre.

— È un grosso mostro grigio che può trasformarsi in tutto quello che vuole — spiegò Pollen. — Il signor Surgenor se ne porta sempre dietro uno, dovunque vada… ecco da dove sono nate tutte queste vecchie storie.

— Non può trasformarsi in tutto quello che vuole — disse Surgenor. — Può soltanto assumerne la forma esteriore. Dentro resta sempre un Uomo Grigio. — Vi furono altre esclamazioni di incredulità, e qualche risata.

— Per tornare a quella tua idea di usare la logica — continuò Surgenor testardo, ansioso di riportare la discussione su un piano di serietà — perché non provate almeno a pensare a quello che ho detto, e non provate a verificarlo? Non dovete credermi sulla parola.

— Lo so, Dave… l’Uomo Grigio è pronto a giurare su tutto quello che dici.

— La mia proposta è di chiedere al Capitano Aesop di controllare l’archivio con i dati xenologici, e di calcolare per prima cosa la possibilità d’esistenza degli Uomini Grigi, e poi quante probabilità ci sono che il Settimo Modulo sia un Uomo Grigio. — Surgenor si accorse con sollievo che questa volta non vi furono risate. Non c’era tempo per scherzare. Probabilmente non c’era tempo per niente.

La stella doppia, il sole gemello del pianeta, era sospesa bassa nel cielo, dietro la massa confusa della Sarafand e le lontane colline nere. Fra altri diciassette mesi il pianeta avrebbe ripercorso la sua via fra i due punti di luce, e Surgenor voleva essere molto lontano quando fosse successo… e così pure la super-bestia nascosta fra di loro.

Candar si accorse con grande stupore di ascoltare i processi mentali delle creature-cibo con qualcosa di molto simile all’interesse.

La sua razza non aveva mai costruito macchine: si era sempre affidata alla forza, alla velocità e alla capacità di adattamento dei grandi corpi grigi di cui erano forniti i suoi membri. In aggiunta a questo istintivo disprezzo per le macchine, Candar aveva trascorso settanta secoli su un mondo dove nessun oggetto artificiale, per quanto ben costruito, avrebbe potuto sopravvivere al passaggio annuale nell’inferno binario. Restò perciò profondamente sorpreso accorgendosi di quanto le creature-cibo dipendessero dalle loro costruzioni di metallo e plastica. La scoperta che più lo incuriosì fu che i gusci metallici non erano solo mezzi di trasporto, ma che permettevano a tutti gli effetti la sopravvivenza delle creature mentre si trovavano su quel mondo privo di aria.

Candar cercò di immaginare cosa potesse voler dire affidare la vita a un meccanismo complicato e soggetto a guasti, ma l’idea lo riempì di un terrore freddo e nuovo per lui. Scacciò dalla mente il pensiero e concentrò tutta la sua feroce intelligenza sul problema di avvicinarsi a sufficienza all’astronave per paralizzare i centri nervosi della creatura al suo interno. Era necessario in particolare paralizzare colui che le creature chiamavano Capitano Aesop prima che le armi della nave potessero essere messe in azione.