— Te l’ho già data. “No” è una risposta. — Christine sospirò, gettò a terra la sigaretta e la schiacciò sotto il tacco. — Senti, Dave, non voglio essere antipatica; ti ringrazio sinceramente per l’offerta, ma non sarebbe un po’ sciocco? Le storie d’amore di bordo svaniscono sempre nell’aria quando si arriva in porto, e se poi a bordo non c’è stato neppure quello…
Surgenor si rendeva conto che con la loro discussione stavano attirando l’attenzione dei passanti, ma insistette. — Ti sei dimenticata di essere venuta nella mia stanza, quella sera?
— E allora? — Christine fece una risata sarcastica. — Non dirmi che hai approfittato di me, mentre…
— Non parlarmi in questo modo — sbottò Surgenor, prendendola per le spalle, deciso a lanciare il suo messaggio attraverso il baratro di anni perduti che separava le loro vite. — Te lo dico io cosa è successo quella sera, e io lo so meglio di te, perché sono più esperto in fatto di solitudine. Ti sei trovata di fronte a qualcosa che non sapevi come affrontare da sola, e sei venuta da me per aiuto. Ora io mi trovo davanti a qualcosa che non so come affrontare da solo, e…
— E vieni da me per aiuto?
— Sì.
Christine gli prese i polsi e gli staccò lentamente le mani dalle spalle. — Tu sei pazzo, Dave. — Si voltò e si allontanò sul campo polveroso.
— E tu — le gridò Surgenor — tu sei una stupida!
Christine continuò a camminare per una decina di passi, poi si fermò e restò a guardare a terra per un momento, prima di tornare da lui. — Hai un bel coraggio a chiamarmi stupida. Hai idea di cosa ti aspetta, se mi prendi con te?
— No, ma sono pronto a scoprirlo. — Surgenor cercò disperatamente le parole giuste, le parole migliori. — Sarà un nuovo tipo di viaggio, per me. Christine esitò, e lui vide che le tremavano le labbra. — Va bene — disse. — Andiamo.
Surgenor prese la sua valigia, e i due, separati da un breve tratto, si incamminarono verso il perimetro lontano del campo. Il calore improvviso del sole sulla schiena avvertì Surgenor che erano usciti dall’ombra della nave, ma non si voltò a guardarla.
Un autore per tutte le stagioni
di Vittorio Curtoni
Bob Shaw è uno di quegli autori che meriterebbero, e da parecchi anni, molta più fortuna di quella che hanno. Purtroppo per lui, non ha mai scritto grandi best-seller internazionali; nessun regista di grido ha mai tratto un film dai suoi libri; non è in linea con l’attuale tendenza al gonfiaggio dei romanzi, cioè non è il tipo capace di scrivere cinquecento cartelle basate su un’idea che, al massimo, potrebbe reggere un racconto lungo… È, per sua sfortuna (e per grande fortuna dei suoi cinque lettori), un narratore autentico.
Di conseguenza, i suoi libri hanno dimensioni ragionevoli, le sue storie conservano un’esemplare coerenza dalla prima all’ultima parola; e i suoi personaggi hanno un sapore talmente vero da risultare, in più di un’occasione, sgradevoli nella loro nuda realtà umana.
Nato a Belfast nel 1931, laureato in ingegneria meccanica, pubblica il primo racconto nel 1954, ma solo dal 1975 decide di diventare scrittore a tempo pieno. La sua ormai ricca bibliografia comprende romanzi giustamente celebri (all’interno dell’universo degli appassionati di fantascienza, se non altro) come Altri giorni, altri occhi (1972), basato sull’idea del “vetro lento”, un vetro che imprigiona le radiazioni luminose e le restituisce lentamente, fissando quasi per l’eternità le immagini del passato; la trilogia di Orbitsville, iniziata nel 1975, affascinante esplorazione di un mondo artificiale di dimensioni gigantesche, costruito come un guscio attorno alla propria stella; e Luna, maledetta luna, impietosa cronaca dello scontro tra la specie umana e una razza superiore di immortali.
Shaw ha in comune con un altro grande della fantascienza moderna, Theodore Sturgeon, un paio di qualità. In primo luogo, entrambi sono capaci di ideare trame che sono vere trame (cioè storie che appassionano il lettore, lo divertono, gli propongono sviluppi interessanti), ma al tempo stesso posseggono l’innegabile carattere della parabola (o del racconto a tesi, se vogliamo); ed entrambi tendono a mettere l’accento sulle valenze morali, etiche, che scaturiscono dagli avvenimenti e dai loro riflessi sui personaggi.
Molto spesso, all’inizio di un romanzo di Shaw, il suo protagonista è affetto da una malattia, o comunque si trova in uno stato fisico di estrema debilitazione (come l’Hasson di Antigravitazione per tutti, reduce da uno spaventoso incidente di volo; come il Denny di Luna, maledetta luna, malato di polineurite; come il John Redpath di Il terzo occhio della mente,epilettico; eccetera). Ciò che gli accade in seguito (quindi, nel contesto del romanzo, il tessuto della trama) è una sorta di percorso iniziatico: il rito della crescita, della lotta con se stessi e con la malattia, per giungere a una nuova definizione di sé e all’accettazione di una realtà esterna che prima veniva negata, ripudiata, evitata, odiata. Shaw non lo dice esplicitamente, ma credo che le sue storie si possano leggere come trascrizioni di altrettante terapie analitiche “selvagge”: la funzione dell’analista è svolta da avvenimenti esterni di impatto traumatico, e gli eventi portano avanti quel dialogo con l’io, quello scavo interiore che il personaggio, in situazioni diverse, non sarebbe in grado di gestire. Com’è ovvio, è un processo che implica molto dolore; ma la redenzione finale, il segno estremo della fiducia dello scrittore nelle possibilità dell’uomo, è un riscatto che giustifica qualunque martirio.
Oltre che al singolo individuo, Shaw è attentissimo alla dimensione sociale. O quando elabora nuove variazioni su temi canonici della fantascienza (ad esempio l’immortalità, in Luna, maledetta luna e nel bellissimo, dolente Un milione di domani), o quando si inventa ex novo ritrovati tecnologici di portata rivoluzionaria (come i corpetti antigravità di questo romanzo, o il già citato vetro lento), Shaw esplora con minuziosa precisione le conseguenze che il tessuto sociale subisce sotto la spinta di questi cambiamenti. La storia dei suoi personaggi riesce sempre a riflettere una storia collettiva; ne diventa lo specchio, la cartina di tornasole. Il che è l’essenza di ciò che si definisce “letteratura speculativa”, se non sbaglio. In altre parole, è l’essenza della fantascienza.
Personalmente, ho avuto il piacere, per molti anni, di tradurre in italiano le opere di Bob Shaw, e ho imparato ad amarlo anche quando mancava clamorosamente il bersaglio. Persino nei suoi romanzi meno riusciti (come il balordo I figli di Medusa, strutturato attorno ad un’idea assurda, inconsistente) riesce sempre a farsi leggere con piacere, a infilare tra le righe notazioni assai acute sulla psiche umana e sulle strutture sociali.
Ed è, in un campo dove i pennivendoli si sprecano, uno dei pochi autori capaci di usare con creativa autorità la lingua inglese: la sua sintassi è complessa, armoniosa, costruita su scansioni di ricchezza insolita; il suo lessico è preciso, netto, direi quasi fotografico, del tutto lontano dalle vaghe imprecisioni che una lingua sintetica come l’inglese permette (anzi, stimola).
Che altro potrei aggiungere? Sarà ormai chiaro, a chi ha avuto la bontà di seguirmi sin qui, che adoro Bob Shaw, che lo giudico uno dei più importanti (e, ripeto, sottovalutati) autori della fantascienza internazionale. Posso solo dire che Antigravitazione per tutti mi è sempre parso uno dei suoi capolavori, più che degno di figurare nella collana che oggi lo ospita; e che spero questo sia solo l’inizio della riscoperta, qui in Italia, di uno scrittore di spiccata eccellenza.