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Risolini sommessi si propagarono fra gli uomini al seguito, per la maggior parte vecchi quanto lo stesso Bashere, e perfino i denti bianchi di Tumad luccicarono in un sorriso attraverso la sua barba. Avevano tutti partecipato a delle campagne, prima, anche se nessuna insolita quanto questa. Rizzandosi per guardare attorno, Bashere osservò la strada attraverso gli alberi, ma non dedicandovi la sua completa attenzione.

In tutta sincerità, Tenobia lo preoccupava. Solo la Luce sapeva perché Easar e gli altri avessero deciso di lasciare il Confine della Macchia assieme, oltretutto portando via tutti quei soldati che, stando alle dicerie, avevano condotto a sud. Anche se fossero stati la metà di quanti dicevano le voci. Senza dubbio avevano motivi che consideravano validi e sufficienti, e senza dubbio Tenobia li condivideva. Ma lui la conosceva: le aveva insegnato a cavalcare, l’aveva vista crescere, le aveva porto la Corona Spezzata quando lei era salita al trono. Era una brava governante, dalla mano non troppo pesante né troppo leggera, intelligente pur se non sempre saggia, coraggiosa senza essere avventata, ma ‘impulsiva’ la descriveva a stento. Alle volte, anche ‘testa calda’ era troppo poco. E Bashere era più che sicuro che lei avesse il proprio obiettivo, a parte quello a cui miravano gli altri. La testa di Davram Bashere. Se era così, era probabile che non si sarebbe accontentata di un altro periodo di esilio, dopo essere giunta così lontano. Quanto più a lungo qualcosa infastidiva Tenobia, tanto più difficile era convincerla a lasciarla perdere. Era un serio problema. Sarebbe dovuta essere in Saldea a difendere il Confine della Macchia, ma del resto anche lui. Avrebbe potuto incarcerarlo per tradimento almeno due volte per quello che aveva fatto da quando era venuto al sud, ma Bashere non riusciva a vedere nessun altro modo in cui le cose sarebbero potute andare. La ribellione – Tenobia poteva definirla in modo estensivo, a suo piacimento – la ribellione era un proposito orribile, tuttavia lui voleva che la sua testa gli rimanesse attaccata al collo ancora per un po’. Un problema serio e spinoso.

L’accampamento, contenente gli ottomila e rotti cavalleggeri che gli erano rimasti dopo Ilian e il confronto coi Seanchan, si estendeva più ampio del campo sulla Strada di Tar Valon, ma non si poteva dire che si spandesse in modo disordinato. Le linee dei cavalli erano file uniformi con una fucina da maniscalco a entrambe le estremità, che passavano tra file ugualmente dritte di ampie tende grigie o perlacee, anche se ora mostravano un bel po’ di rattoppi. Ogni uomo era in grado di essere in sella e pronto a combattere contando massimo fino a cinquanta dopo uno squillo di tromba, e le sue sentinelle erano posizionate in modo da assicurarsi che avessero a disposizione quel tempo o anche più. Perfino i civili al seguito, con le loro tende e i carri a un centinaio di passi a sud del resto, erano più ordinati dei soldati che assediavano la città, come se avessero seguito l’esempio dei Saldeani. Fino a un certo punto, almeno.

Mentre entrava a cavallo con la sua scorta, gli uomini si muovevano in fretta e con aria cupa fra le linee dei cavalli, quasi come se il segnale di balzare in sella fosse stato suonato. Più d’uno aveva la propria spada sguainata. Delle voci lo chiamarono, ma alla vista di una larga folla di uomini e donne – perlopiù donne – assiepata al centro del campo, avvertì dentro di sé un improvviso stordimento. Affondò i talloni e Rapido scattò in avanti al galoppo. Non sapeva se qualcuno l’avesse seguito o no. Non sentiva nulla tranne il sangue che gli martellava nelle orecchie, non vedeva nulla tranne la folla di fronte alla sua tenda dalla punta aguzza. La tenda che divideva con Deira.

Non frenò il cavallo nel raggiungere la folla, ma si limitò a balzar giù di sella atterrando in corsa. Udì le persone parlare senza capire cosa stavano dicendo. Si separarono di fronte a lui, aprendo un passaggio verso la sua tenda, altrimenti lui li avrebbe travolti. Scostati i lembi, entrò e si fermò. La tenda, grande abbastanza per ospitare venti soldati, era affollata fino alle pareti di donne, mogli di nobili e ufficiali; ma i suoi occhi trovarono in fretta la sua, di moglie, Deira, seduta su una sedia pieghevole nel mezzo dei tappeti che fungevano da pavimento, e lo stordimento svanì. Sapeva che lei sarebbe morta un giorno – sarebbero morti entrambi – ma l’unica cosa che temeva era vivere senza di lei. Poi si rese conto che alcune delle donne la stavano aiutando ad abbassare il proprio vestito fino alla cintura. Un’altra stava premendo un panno piegato contro il braccio sinistro di Deira, e il tessuto diventava rosso man mano che il sangue le colava copioso lungo l’arto per poi gocciolare dalle dita in una ciotola posizionata sul tappeto. C’era già una notevole quantità di sangue scuro nella ciotola.

Lei lo vide nello stesso istante e i suoi occhi guizzarono in un volto che era fin troppo pallido. «Ecco cosa succede a reclutare degli stranieri, marito» disse con fierezza, la mano destra che gli agitava contro un lungo pugnale. Alta quanto molti uomini, alcuni pollici più di lui e bellissima, il suo volto incorniciato da capelli corvini striati di bianco, aveva una presenza autorevole che poteva diventare imperiosa quando era arrabbiata. Anche quando era ovvio che poteva a malapena sedere dritta. Molte donne si sarebbero innervosite nell’essere nude fino alla cintola di fronte a così tante persone e in presenza del proprio marito. Non Deira. «Se tu non insistessi sempre per muoverci come il vento, potremmo avere uomini validi dei nostri possedimenti per fare ciò che è necessario.»

«Una controversia con i servitori, Deira?» chiese lui, inarcando un sopracciglio. «Non avrei mai pensato che saresti arrivata a liti al coltello con loro.» Molte delle donne gli rivolsero fredde occhiate di traverso. Erano pochi i mariti e le mogli che fra loro avevano un rapporto come quello di Davram e Deira. Alcuni li trovavano stravaganti, dato che urlavano di rado.

Deira lo guardò accigliata, poi bofonchiò una breve risata involontaria. «Comincerò dal principio, Davram. E andrò piano, in modo che tu possa capire» aggiunse con un sorrisetto, facendo una pausa per ringraziare le donne che le coprivano il petto nudo con un lenzuolo di lino. «Sono tornata dalla mia cavalcata e ho trovato due strani uomini che rovistavano nella nostra tenda. Hanno estratto i pugnali, perciò naturalmente ne ho colpito uno con una sedia e ho accoltellato l’altro.» Osservò con una smorfia il suo braccio ferito.

«Non abbastanza bene, dato che è riuscito a scalfirmi. Poi Zavion e alcune altre sono entrate e i due sono fuggiti attraverso uno squarcio che avevano fatto sul retro della tenda.»

Molte delle donne annuirono con aria torva e afferrarono il manico dei pugnali che tutte portavano. Finché Deira non aggiunse in tono cupo: «Ho detto loro di inseguirli, ma hanno insistito per curare il mio graffio.» Le mani lasciarono le impugnature e i volti arrossirono, anche se nessuna parve spiacente per aver disobbedito. Erano state in una posizione delicata. Deira era la loro signora, così come lui era il loro signore, ma che lei lo definisse o meno un graffio, avrebbe potuto morire dissanguata se l’avessero lasciata per correre a dare la caccia ai ladri. «In ogni caso,» proseguì lei «ho ordinato una ricerca. Non sarà difficile trovarli. Uno ha un bernoccolo in testa e l’altro sanguina.» Fece un brusco, soddisfatto cenno col capo.