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I due se ne andarono dopo avere rivolto un’ultima occhiata nervosa agli schermi dove gli apparecchi si vedevano molto vicini a noi. Sir Roger appoggiò le mani sui volani che controllavano le bombarde. Avevamo infatti scoperto, dopo qualche prova, che quelle grandi armi prendevano la mira e sparavano quasi da sole. Quando gli apparecchi di pattuglia si avvicinarono, Sir Roger azionò i comandi.

Accecanti raggi infernali scaturirono dalla nostra nave ed avvolsero gli apparecchi in un mare di fiamme. Vidi il più vicino a noi che veniva tranciato in due da quella spada fiammeggiante. Un altro precipitò incandescente ed un terzo esplose. Si udì un rumoreggiare di tuono, poi vidi solo precipitare scorie metalliche.

Sir Roger volle mettere alla prova quanto aveva affermato prima Branithar, ma vidi che aveva detto il vero: i raggi rimbalzavano via da quello schermo pallido e traslucido. Emise un grugnito:

«Ho voluto vedere: adesso sarà meglio che scendiamo, prima che mandino quassù una vera corazzata per fare piazza pulita di noi, o che aprano il fuoco da quelle batterie.»

Mentre parlava, spinse giù la nave in picchiata. Una fiammata toccò il nostro scafo, ma eravamo ormai troppo bassi. Poi vidi gli edifici di Ganturath avventarsi contro di me e mi aggrappai alla parete in attesa della morte.

Tutta la nostra nave fu percorsa da uno stridio metallico e si udì un rumore lacerante. La nostra stessa torretta si squarciò mentre sfioravamo una bassa torre di guardia, ed il parapetto fortificato fu spazzato via. Il Crusader, lungo duemila piedi, schiacciò mezza Ganturath sotto di sé col suo peso incalcolabile.

Sir Roger scattò in piedi ancora prima che i motori si spegnessero.

«Avanti!», ululò. «Dio è con noi!»

E si lanciò di corsa sul ponte che si era deformato ed inclinato. Strappò il proprio elmo dalle mani dello scudiero terrorizzato e se lo infilò mentre correva. Il ragazzo lo seguì con i denti che gli battevano per lo spavento portando lo scudo del Barone di Tourneville.

Branithar era rimasto seduto, senza parole. Io raccolsi la veste e corsi via per cercare un sergente che mettesse sotto chiave quel prigioniero così prezioso per me. Fatto questo, fui in grado di assistere alla battaglia.

La nostra discesa era avvenuta nel senso della lunghezza e non sulla coda, ma i generatori artificiali di gravità ci avevano impedito di andare tutti a gambe all’aria. Attorno a noi era il caos: edifici fracassati e mura squarciate. Una marea di Wersgorix azzurri dilagò fuori dal resto della fortezza.

Quando arrivai all’uscita, Sir Roger era già fuori con tutta la sua cavalleria. Non si fermò per raccogliere i suoi uomini ma si lanciò al galoppo là dove i nemici erano più fitti. Il suo cavallo nitrì, scuotendo la criniera, con l’armatura che sprizzava lampi; la lunga lancia del mio Signore inchiodò tre corpi in una volta sola, poi, quando alla fine si spezzò, Sir Roger sguainò la spada e prese a menare fendenti, assetato di sangue.

La maggior parte di coloro che lo seguivano non avevano scrupolo di usare armi che non si addicono a dei cavalieri; così, oltre alle armi da taglio, alle asce ed alle mazze chiodate, ecco spuntare armi da fuoco portatili prese a bordo della nave.

Poi si riversarono fuori anche gli arcieri e i fanti. Forse era il loro stesso terrore che li rendeva così selvaggi e si avventavano addosso ai Wersorix prima che il nemico potesse fare uso dei suoi lampi mortali. La battaglia si trasformò in un corpo a corpo, una rissa non più guidata, dove l’ascia, il pugnale od il bastone servivano meglio dei raggi di fuoco o delle armi a palla.

Quando Sir Roger ebbe fatto il vuoto attorno a sé, fece indietreggiare il suo stallone nero. Poi rialzò la visiera e si portò la tromba alle labbra. Il suono si levò al di sopra del fragore delle armi e chiamò a raccolta la forza a cavallo. Questi combattenti, più disciplinati dei fanti a piedi, si disimpegnarono dalla lotta ed accorsero attorno al Barone. Dietro al mio Signore si formò così una massa di grandi cavalli, di uomini simili a torri d’acciaio, di scudi stemmati, e di piume al vento e lance levate.

La mano guantata di ferro di Sir Roger indicò il forte lontano dove le bombarde levate contro il cielo avevano smesso di sparare inutilmente.

«Dobbiamo prenderlo prima che raccolgano le loro forze!» gridò. «Dietro di me, Inglesi, per Dio e per San Giorgio!»

Prese una nuova lancia dal suo scudiero e diede di sprone al cavallo, acquistando sempre più velocità. Dietro di lui il fragore degli zoccoli che battevano il terreno assunse un rombo di tuono.

I Wersgorix che erano di stanza nel forte più piccolo si riversarono all’esterno per resistere all’attacco. Erano armati di vari tipi di armi da fuoco, oltre ad avere dei piccoli missili esplosivi che lanciavano a mano. Un paio di cavalieri furono abbattuti ma, a distanza così ravvicinata, non c’era tempo per prendere la mira. Inoltre, l’attacco li aveva sconvolti. Non c’è appunto spettacolo più terrificante di una carica di cavalleria pesante.

Il guaio dei Wersgorix era di essere troppo progrediti. Per loro il combattimento sul campo era ormai obsoleto e, quando si presentò la necessità, si trovarono male addestrati e peggio equipaggiati. È vero che possedevano quei raggi di fuoco e gli schermi di energia per ripararsi dagli stessi raggi, ma non avevano proprio pensato che sarebbe stato necessario disseminare il suolo di chiodi a tre punte.

E così avvenne che la massa della nostra cavalleria si abbatté sulle loro linee, le travolse, le calpestò nel fango e continuò la carica senza neppure venire rallentata.

Uno degli edifici dietro di loro aveva un varco aperto e nell’apertura era stata trainata una piccola astronave, grande quanto una qualsiasi nave della Terra, eretta sulla coda, col motore acceso, e pronta a decollare e ad inondarci di fiamme dall’alto.

Sir Roger le scagliò contro la cavalleria. I lancieri la colpirono tutti insieme contemporaneamente. Le lance si spezzarono, e gli uomini furono sbalzati di sella. Ma riflettete un momento: un cavaliere lanciato alla carica porta con sé tutto il peso della propria armatura e sotto di sé ha millecinquecento libbre di cavallo. Il tutto viaggia ad una velocità di diverse miglia all’ora. La forza d’urto che ne consegue è spaventosa.

La nave fu rovesciata. Cadde su un fianco e rimase lì.

I cavalieri di Sir Roger dilagarono, come impazziti, per tutta la fortezza, lavorando di spada, di mazza, di stivale e di zoccolo di cavallo. I Wersgorix cadevano come mosche. O meglio, le mosche erano le piccole barche di pattuglia che ronzavano sopra la nostra testa senza riuscire a sparare per timore di colpire nella mischia anche i loro uomini. A dire il vero, a questo ci pensava mirabilmente Sir Roger ma, quando i Wersgorix se ne resero conto, ormai era troppo tardi.

Nella parte principale della fortezza, là dove si trovava il Crusader, il combattimento si trasformò in una diatriba per stabilire se si dovevano uccidere tutti i musi azzurri oppure farli prigionieri, oppure respingerli nella vicina foresta. Regnava però ancora la più totale confusione, e Red John Hameward aveva l’impressione di sprecare invano le doti dei suoi arcieri, così li inquadrò in un distaccamento ed uscì a passo di corsa allo scoperto per aiutare Sir Roger.

Le barche di pattuglia gli piombarono addosso come uccelli da preda, e la preda sembrava davvero a portata di mano. I loro raggi sottili erano appunto studiati per distanze brevi. Al primo passaggio morirono due arcieri. Poi Red John urlò un ordine.

Improvvisamente il cielo si riempì di frecce. Una freccia lunga un braccio, lanciata da un arco di tasso di sei piedi, è in grado di trapassare un uomo coperto d’armatura, e il cavallo sotto di lui.

Ebbene, queste piccole barche peggiorarono ancora le cose volando direttamente in mezzo allo stormo di piume d’oca. E nessuna di loro si salvò. Sforacchiate, coi piloti irti di frecce come porcospini, si schiantarono a terra, e gli arcieri si lanciarono avanti con un ruggito per gettarsi nella mischia che li attendeva.