L’astronave che i lancieri avevano rovesciato aveva ancora a bordo l’equipaggio che adesso doveva essersi ripreso dallo shock: infatti, improvvisamente, le torrette presero a sprizzare fiamme e non i deboli raggi delle armi portatili, ma veri e propri fulmini che abbattevano le pareti. Un cavaliere e la sua cavalcatura, centrati da quel fuoco, svanirono istantaneamente. I lampi presero a spazzare tutt’attorno, vendicativi.
Red John raccolse l’estremità di una grande trave d’acciaio venuta giù della cupola schiantata da quelle bombarde. Cinquanta uomini lo aiutarono. Poi corsero tutti insieme verso il portello d’entrata della nave. Una volta, due volte, crash! Ed ecco che la porta fu abbattuta e gli Inglesi si lanciarono all’interno.
La Battaglia di Ganturath durò per qualche ora, ma la maggior parte del tempo fu impiegato semplicemente per stanare i superstiti della guarigione che si era nascosti ovunque. Quando il sole alieno calò verso ovest, erano morti una ventina di Inglesi. Ma nessuno era rimasto gravemente ferito, perché le armi a fiamma generalmente uccidevano se riuscivano a centrare il bersaglio.
Furono uccisi circa trecento Wersgorix, ed un numero all’incirca uguale fu catturato; molti di questi avevano perso un arto od un orecchio. In quanto a quelli che erano fuggiti a piedi, direi che dovevano essere all’incirca un centinaio. Questi avrebbero senz’altro avvertito della nostra presenza gli insediamenti più vicini… che tuttavia non lo erano poi molto. Evidentemente la velocità e l’effetto distruttore del nostro attacco iniziale doveva aver messo fuori uso gli apparecchi per parlare lontano prima ancora che l’allarme potesse venir diffuso.
Il nostro vero disastro non divenne evidente che più tardi. Non ci preoccupammo se la nave con cui eravamo arrivati era andata distrutta, perché adesso avevamo a disposizione diversi altri vascelli che, messi insieme, ci avrebbero contenuti tutti quanti. I loro equipaggi infatti non avevano avuto la possibilità di utilizzarli contro di noi. Il guaio era piuttosto che, con quel suo orrendo atterraggio, il Crusader aveva avuto la torretta di comando squarciata e tutti gli appunti wersgoriani di navigazione erano andati perduti.
In quel momento, però, pensavamo solo al trionfo. Tutto macchiato di sangue, ansante, con l’armatura bruciacchiata ed ammaccata, Sir Roger de Tourneville tornò col suo stanco cavallo verso la fortezza principale, seguito da lancieri, arcieri e fanti, tutti stracciati, malconci, e con le spalle curve per lo sfinimento. Ma il Te Deum era sulle loro labbra e si levava in cielo sotto quelle strane costellazioni mentre i loro stendardi sventolavano coraggiosamente al vento.
Era meraviglioso essere Inglesi.
CAPITOLO VII
Ci accampammo nel forte più piccolo che era rimasto quasi intatto. I nostri uomini andarono a far legna nella foresta e, mentre si levavano in cielo le due lune, guizzarono le fiamme scoppiettanti dei fuochi. Gli uomini sedevano uno accanto all’altro, coi volti che si stagliavano nelle tenebre, illuminati dalla luce confortante e guizzante dei fuochi, in attesa che i pentoloni della cena fossero pronti. I cavalli brucavano quell’erba sconosciuta senza gustarla.
I Wersgorix catturati erano tutti raccolti in un angolo e guardati a vista da un gruppo di soldati armati di picche. Erano ancora storditi. Tutto questo a loro non sembrava ancora possibile, e quasi provai dispiacere per loro, per quanto crudele e pagano fosse il loro dominio.
Sir Roger mi mandò a chiamare perché mi unissi ai suoi Capitani che erano accampati vicino ad una delle torrette armate. Tutte le difese disponibili erano state apprestate in attesa di un contrattacco e cercando di non pensare a quali altri orribili trucchi poteva avere a disposizione il nemico.
Per le donne di più alto linguaggio erano state erette alcune tende. In maggioranza si erano già ritirate per la notte, ma Lady Catherine sedeva su uno scranno ai bordi del fuoco ed ascoltava le nostre chiacchere con la bocca tirata e esangue.
I Capitani si erano coricati per terra, esausti. Vidi Sir Owain di Montbelle che strimpellava oziosamente la sua arpa; il vecchio e temibile Sir Brian Fitz-William, coperto di cicatrici, il terzo dei tre Nobili Cavalieri di questo viaggio; il grosso Thomas Bullard che accarezzava la spada sguainata che teneva in grembo; Red John Hameward, intimidito, perché tra tutti era quello di più bassa estrazione. Un paio di paggi versavano del vino.
Sir Roger, il mio indomabile Signore, stava in piedi, con le mani allacciate dietro la schiena. Ora che si era tolto l’armatura come gli altri, dato che aveva lasciato i suoi abiti migliori nelle ceste da viaggio, avrebbe potuto essere scambiato per il più umile dei suoi sergenti, ma chiunque avesse cambiato subito idea vedendo il suo viso muscoloso, dal naso sporgente e sentendolo parlare. Per non parlare poi degli speroni che gli tintinnavano agli stivali.
Quando entrai nel cerchio di luce mi fece un cenno.
«Ah, eccoti qui, Fratello Parvus. Siediti e bevi un boccale di vino. Tu hai la testa sulle spalle e abbiamo tutti bisogno di buoni consigli stasera.»
Per un po’ passeggiò ancora avanti e indietro riflettendo, ed io non osai interromperlo con le mie sciagurate notizie. Una varietà di suoni che uscivano dal buio accentuava l’estraneità di quel mondo dalle lune gemelle. Questi non erano i grilli, le rane ed i succiacapre d’Inghilterra: questo era un ronzio, uno stridore, un canto dolce e inumano simile a quello di un liuto d’acciaio. E anche gli odori erano alieni, e questo mi disturbava ancora di più.
«Bene!», disse il mio Signore. «Per grazia di Dio abbiamo vinto il nostro primo scontro. Adesso dobbiamo decidere le prossime mosse.»
«Io credo…» Sir Owain si schiarì la gola, poi parlò in fretta: «No, signori, ne sono sicuro! Dio ci ha aiutato contro imprevedibili tradimenti, ma non sarà più con noi se mostreremo un indebito orgoglio. Noi ci siamo conquistati un raro bottino d’armi con le quali potremo compiere grandi cose a casa nostra. Perciò, torniamo subito indietro.»
Sir Roger si strinse il mento con due dita.
«Io preferirei rimanere qui,» rispose, «ma c’è molto di vero in quanto voi dite amico mio. E poi potremo sempre tornare, una volta liberata la Terrasanta, e sistemare come si deve questo nido di Demoni.»
«Sì.» convenne Sir Brian. «Siamo troppo pochi adesso ed abbiamo l’ingombro delle donne, dei bambini, dei vecchi e del bestiame. Così pochi combattenti contro un intero Impero sarebbe una follia.»
«Eppure mi piacerebbe spezzare un’altra lancia contro questi Wersgorix», osservò Alfred Edgarson. «Non ho ancora messo le mani su una sola briciola d’oro.»
«L’oro non è di nessuna utilità se non lo riportiamo a casa.» gli ricordò il Capitano Bullard. «E poi è già brutto battersi col caldo e la sete della Terrasanta. Qui non sappiamo neanche quali sono le piante velenose né com’è l’inverno. Sì, è meglio partire domani stesso.»
Un mormorio di assenso si levò tra i presenti.
Io mi scharii la gola, abbattuto. Avevo appena passato un’ora sgradevolissima con Branithar.
«Miei Signori…», cominciai a dire.
«Sì? Che c’è?»
Sir Roger mi scoccò un’occhiata inceneritrice.
«Miei Signori, io credo che non saremo più in grado di ritrovare la via del ritorno!»
«Cosa?», gridarono tutti. Parecchi balzarono in piedi. E sentii Lady Catherine che, inorridita, respirava tra i denti.
Poi spiegai loro che gli appunti wersgoriani sulla rotta per raggiungere il nostro sole erano andati perduti tra le rovine della torretta di comando. Avevo condotto io stesso le ricerche, frugando dappertutto nel tentativo di ritrovarli, ma senza successo. L’interno della torretta era bruciato e fuso in più punti, segno evidente che un raggio di fuoco vagante entrato dall’apertura, aveva colpito un cassetto spalancatosi durante il violento atterraggio ed aveva così incenerito le carte.