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«Ah. Voi allora credete che la personalità sopravviva dopo la morte. Un problema interessante! Se la personalità è uno schema piuttosto che un oggetto materiale, come sembra ragionevole, allora è teoricamente possibile che questo schema possa essere trasferito in qualcos’altro: lo stesso sistema o insieme di relazioni, insomma, ma in un’altra matrice fisica.»

«Smettila di parlare a vanvera!», scattai in un impeto di impazienza. «Sei peggio di un albigese. Allora, rispondimi in parole semplici: avete o non avete un’anima, voi?»

«I nostri scienziati hanno indagato sui problemi connessi ad un concetto schematico della personalità ma, per quanto ne sappia, mancano ancora dei dati decisivi su cui basare una conclusione.»

«Ed ecco che ci risiamo!», sospirai. «Non sai darmi una risposta semplice? Rispondimi semplicemente: l’anima, l’avete o no?»

«Non so.»

«Non mi sei affatto di aiuto.» lo rimproverai, e me ne andai.

Io e i miei colleghi dibattemmo a fondo il problema ma, a parte l’ovvia conclusione che si poteva imporre il battesimo provvisorio a qualsiasi essere non umano disposto a riceverlo, non trovammo alcuna soluzione. Era una faccenda che solo Roma poteva risolvere, magari con un Concilio Ecumenico.

Mentre avveniva tutto questo, Lady Catherine aveva ricacciato indietro le proprie lacrime ed aveva imboccato altezzosamente un corridoio cercando di calmare il proprio tumulto interiore con un po’ di moto. Nel lungo salone dove pranzavano i Capitani, trovò Sir Owain che stava accordando la propria arpa.

Questi scattò in piedi e s’inchinò.

«Milady! Che sorpresa piacevole… direi abbagliante».

Lady Chaterine si sedette su una panca.

«Dove ci troviamo adesso?», gli chiese improvvisamente scuotata da ogni energia.

Intuendo che la donna sapeva la verità, Sir Owain rispose:

«Non so. Il sole si è rimpicciolito ormai a tal punto che si è perso in mezzo a tutte queste stelle.» Un sorriso gli spuntò lentamente sul viso scuro. «Ma in questa sala c’è già un sole risplendente.»

Catherine sentì il rossore montarle su per le gote, poi abbassò lo sguardo sulle proprie scarpe. Le sue labbra si mossero, senza che lei lo volesse.

«Questo è il viaggio più solitario che gli uomini abbiano mai intrapreso!», osservò Sir Owain. «Se Milady lo permette, cercherò di farvi trascorrere un’ora con una ballata dedicata al vostro fascino.»

La donna rifiutò una sola volta. Poi la voce di lui si levò alta fino a riempire tutta la sala.

CAPITOLO V

C’è poco da dire sul viaggio. La noia in breve diventò più pericolosa dei pericoli che ci attendevano. I Cavalieri si scambiavano parole feroci e John Hameward dovette far sbattere l’una contro l’altra più di una coppia di teste per mantenere l’ordine tra i suoi arcieri. I servi la presero meglio; quando non dovevano occuparsi del bestiame o non mangiavano, si limitavano a dormire.

Notai che Lady Catherine era spesso in conversazione con Sir Owain, e che suo marito non era più tanto felice del fatto. Tuttavia, Sir Roger era sempre preso a fare piani e preparativi, e il giovane Cavaliere le offriva alcune ore di distrazione, perfino di allegria.

Io e Sir Roger passavamo molto tempo con Branithar che era ben disposto a raccontarci della sua razza e dell’Impero che avevano conquistato. Io però ero riluttante a credere alle sue affermazioni. Strano che una razza così brutta dovesse vivere in quello che io giudicavo essere il Terzo Paradiso, ma il fatto non poteva essere negato.

Forse, pensavo, quando le Scritture parlavano dei quattro angoli del mondo, non si riferivano affatto al nostro pianeta Terra, ma ad un universo cubico. E, aldilà di esso, doveva trovarsi la dimora dei benedetti; mentre l’osservazione di Branithar relativa all’interno della Terra dove c’era il magma in fusione, era certo consono alle visioni profetiche dell’Inferno.

Branithar ci raccontò che c’erano circa un centinaio di mondi simili al nostro nell’Impero Wersgor, mondi che orbitavano attorno a molte stelle separate, in quanto era ben improbabile che un sole avesse più di un pianeta abitabile.

Ognuno di questi mondi ospitava qualche milione di Wersgorix ai quali piaceva di avere parecchio spazio a disposizione. E, fatta eccezione per il pianeta principale, Wersgorixan, non esistevano città. Su quei mondi però che trovavano alle frontiere dell’Impero, come Tharixan verso cui eravamo diretti, c’erano delle fortezze che servivano anche da basi per la flotta spaziale. Branithar sottolineò la potenza di fuoco e l’imprendibilità di questi castelli.

Se un pianeta adatto alla loro razza ospitava indigeni intelligenti, questi dovevano essere sterminati o resi schiavi. I Wersgorix non facevano lavori manuali, che invece lasciavano agli iloti o agli automi. Loro erano solo soldati, conduttori di grandi possedimenti, commercianti, proprietari di fabbriche, uomini politici, cortigiani. E i nativi schiavizzati, che erano disarmati, non avevano nessuna speranza di rivoltarsi contro i loro padroni alieni, anche se questi erano in numero relativamente scarso.

Sir Roger mormorò qualcosa sulla possibilità di distribuire armi a quegli individui oppressi quando fossimo arrivati, e di raccontare loro delle rivolte contadine, ma Branithar intuì il suo proposito e gli rispose ridendo che Tharixan non era mai stato abitato e che su tutto il pianeta c’erano solo qualche centinaia di schiavi.

Questo Impero occupava nello spazio una sfera di circa duemila anni luce di diametro (un anno luce è l’incredibile distanza che la luce copre in un anno standard Wesgoriano, che era circa del dieci per cento più lungo dell’anno terrestre, secondo Branithar). Questa sfera comprendeva milioni di soli coi loro mondi ma, la maggior parte di questi, a causa dell’aria velenosa o delle forme di vita velenose o per altri motivi, erano inutili per il Wersgorix e venivano ignorati.

Sir Roger gli chiese se la sua fosse l’unica nazione che avesse imparato a volare tra le stelle, ma Branithar si strinse nelle spalle con fare sprezzante.

«Ne abbiamo incontrate altre tre, che hanno sviluppato quest’arte in modo autonomo.» disse. «Sono razze che vivono entro i confini del nostro Impero, ma finora non le abbiamo sottomesse. Non ne valeva la pena fintanto che ci sono dei pianeti primitivi disponibili a portata di mano. Per ora permettiamo a queste tre razze di trafficare e di mantenere il piccolo numero di colonie che hanno già fondato in altri sistemi planetari, ma non abbiamo permesso loro di continuare ad espandersi. A questo scopo sono bastate un paio di guerre di poca rilevanza. Loro non ci amano, perché sanno che un giorno, quando ci farà comodo, le distruggeremo, ma non possono fare nulla di fronte alla nostra strapotenza.»

«Capisco.» osservò il Barone con un cenno del capo.

Poi Sir Roger mi diede ordine di cominciare ad apprendere il linguaggio Wersgoriano. Branithar trovò che era divertente farmi da maestro, ed io trovai che il duro lavoro serviva a calmare le mie paure, così procedemmo in fretta. La loro lingua era una barbarie di suoni, priva com’era delle nobili inflessioni del Latino, ma appunto per questo non era difficile da imparare.

Nella torretta di comando trovai dei cassetti pieni di carte e di tavole numeriche. La loro scrittura era meravigliosamente precisa e pensai che, con degli scribi così abili, era un vero peccato che non avesse pensato di minima quelle pagine. Grazie a quanto avevo appreso della lingua e dell’alfabeto wersgoriani, mi misi a studiare accuratamente quelle carte finché giunsi alla conclusione che costituivano le carte di navigazione di bordo.

Tra di essa c’era anche una mappa del pianeta Tharixan, dal momento che questa era la base del nostro vascello. Quindi mi misi a tradurre i simboli che indicavano terra, mare, fiume, fortezza e così via. Sir Roger ci passò sopra lunghe ore di studio. Perfino la carta saracena che suo nonno aveva riportato indietro dalla Terrasanta era rozza se paragonata a questa; è bensì vero, però, che i Wersgorix dimostravano un’assoluta mancanza di cultura perché omettevano le figure delle sirene, i quattro venti, gli ippogrifi e gli altri ornamenti consimili.