Poi, d’improvviso, a una cinquantina di passi, numerosi palloni si sollevarono, togliendogli il fiato. Tornato padrone di sé, mantenne lo sguardo fisso sul punto dove s’era verificata la materializzazione più vicina. Vi si diresse e lo raggiunse a fatica non essendo abituato a camminare in quelle condizioni di gravità ridotta. Le sue folte sopracciglia s’incrociarono quando scopri che non esistevano fori entro cui potessero essersi nascosti i fantomatici roditori,
Allora s’inginocchiò per alterare la direzione dei raggi luminosi riflessi dalla polvere, e gli parve di scorgere una depressione poco profonda, larga quanto un piatto, con un incavo al centro. Sempre più perplesso, Larmour spazzò adagio la polvere con la mano finché non mise allo scoperto la nuda roccia, a una decina di centimetri di profondità. Qui trovò un foro dai contorni netti, di circa un paio di centimetri di diametro, che pareva fatto col trapano. Infilò un dito nel foro, ma lo ritrasse subito: il calore era cosi forte da penetrare attraverso il guanto isolante. Tutta la roccia intorno era bollente.
Larmour rimase accoccolato sui calcagni, fissando il cerchietto nero con crescente perplessità.
Cercò invano di trovare la soluzione a quel problema, e nello stesso istante un’altra soffice palla si sollevò a pochi metri di distanza. Questa volta Larmour senti la terra tremare, e allora indovinò subito la soluzione… La soluzione spaventosa, terribile.
Sulla Luna, non essendoci un’atmosfera che ne disperda le particelle, una nube di polvere resta piccola e compatta e ricade scomparendo in un batter d’occhio. E la cosa capace di sollevare una nuvola di polvere in quella desolata solitudine non poteva essere che una: l’impatto di una meteorite!
Larmour era sceso dal veicolo dove si trovava al riparo e si era incamminato allo scoperto sotto una pioggia di meteoriti, senza protezione, esponendosi agli stessi rischi che se si fosse trovato sotto una sventagliata di proiettili. Imprecando contro la propria idiozia, e la mancanza di esperienza, si rialzò e corse goffamente, barcollando, verso il mezzo cingolato.
Un quadrimotore antiquato stava pazientemente avanzando attraverso i cieli bui della Groenlandia settentrionale. Nel tambureggiante ventre cilindrico dell’aereo, Denis Soderman era intento a maneggiare il suo apparecchio di registrazione regolando qua e là una manopola, in modo da mantenere nella più perfetta efficienza i sensori di ricerca, automatici e a vastissimo raggio, dell’aeroplano. Lavorava con l’astratta capacità dell’uomo che conosce l’importanza del suo lavoro, ma che è convinto di restare escluso da compiti più elevati.
Poco più oltre, l’"anziano", il dottor Cosgrove, sedeva davanti a un banco improvvisato, e faceva scorrere tra le dita un rotolo di nastro di carta grigia, col gesto di un sarto che prende le misure per un abito. Il suo viso ancora giovane aveva un aspetto invecchiato e stanco, alla luce clinica del tubo fluorescente inserito nel soffitto.
— Non ci occorre aspettare il responso del calcolatore, per valutare questa roba, Denis — disse Cosgrove. — Il flusso dei corpuscoli solari è il doppio del normale. Non ho mai visto registrazioni simili, anche nei momenti di massima attività solare. La fascia di Van Allen deve assorbirli come una spugna, e con i rapporti relativi a una fluttuazione nella costante solare che ci ha mandato oggi il MIT, pare…
Denis Soderman smise di prestargli ascolto. Era ormai abituato a chiudere le orecchie al mormorio costante del collega anziano, ma stavolta lo mosse qualcosa di più d’un semplice meccanismo di difesa. Era successo qualcosa all’aeroplano. Soderman, che si trovava seduto lontano dal centro di gravità dell’apparecchio, aveva percepito un leggero movimento a cavatappi che gli aveva dato la nausea. Era durato sì e no mezzo secondo, ma Soderman era un bravo pilota dilettante e lo preoccupava l’idea che un aeroplano da cento tonnellate agitasse la coda come un salmone. Emulando i suoi strumenti elettronici, ampliò al massimo la portata dei sensi. Per alcuni secondi non avvertì niente, oltre le normali sensazioni di volo; poi ecco di nuovo, per un brevissimo istante, la coda dell’apparecchio che si sollevava e girava su se stessa con un movimento che gli fece contrarre lo stomaco.
— Devono avere delle difficoltà, là davanti — disse. — Non mi piace come vola questo vecchio autobus.
Cosgrove alzò gli occhi dal nastro perforato. — Io non sento niente. — Nella sua voce c’era una sfumatura di disapprovazione, perché Soderman non era abbastanza concentrato nel suo lavoro.
— Datemi retta, dottore. Io sono qui in coda, e “sento"…
S’interruppe perché l’apparecchio era improvvisamente scivolato d’ala, aveva tremato, s’era risollevato e ora taceva. E quel silenzio era minaccioso: i quattro motori si erano spenti improvvisamente, tutti insieme. Soderman, che era stato sbalzato dal suo posto ed era andato a sbattere contro i suoi strumenti, riuscì a mantenere l’equilibrio e corse verso la parte anteriore dell’apparecchio. La pendenza della corsia stava a dimostrare che adesso il velivolo stava scendendo in picchiata. Il secondo pilota, con la faccia grigia come la cenere, si scontrò con Soderman sulla soglia della cabina di pilotaggio.
— Andate in coda e appoggiatevi con la schiena contro la paratia del gabinetto! Stiamo precipitando!
L’ufficiale non fece alcun tentativo per nascondere il panico.
— Precipitiamo? E dove atterreremo? Non ci sono aeroporti da queste parti! — gridò Soderman.
— E venite a raccontarlo a me?
Anche in un momento critico come quello, l’aviatore era geloso della sua superiorità sui comuni mortali, e gli seccava dover discutere di problemi del suo regno con un estraneo.
— Stiamo facendo tutto il possibile per riattivare i motori, ma il capitano Isaacs ha poca fiducia. Credo che tenterà un atterraggio di fortuna sulla neve. E adesso, volete per favore andare a poppa?
— Ma è buio laggiù Nessuno può far atterrare un…
— Lasciate che questo problema lo risolviamo noi, signore — tagliò corto l’ufficiale, sospingendo Soderman lungo l’ondeggiante corsia, prima di tornare in cabina. Soderman aveva la gola secca, quando seguì a poppa la traballante figura del dottor Cosgrove.
Raggiunsero la sezione conica di coda e si misero a sedere sul pavimento con la schiena contro il metallo freddo di una delle paratie maestre. In quel punto, lontano dal centro di gravità, ogni movimento eseguito dal pilota per controllare l’apparecchio aveva l’effetto brusco e violento che dava a Soderman l’impressione che fosse arrivato il momento della catastrofe finale. Venuto a cessare il rombo dei motori, il passaggio della fusoliera attraverso gli strati atmosferici provocava un sibilo acuto, che cambiava di tonalità… Era il grido soddisfatto di un cielo che sentiva indebolirsi la voce di un nemico.
Soderman cercò di adattarsi al pensiero della morte imminente. Sapeva che né la fortuna, né l’abilità del pilota né la solidità dello scafo avrebbe potuto impedire all’aereo di fracassarsi. Di giorno, o anche se ci fosse stata la luna, forse si sarebbe potuto evitare il disastro; ma in quel buio di pece, l’esito di quella discesa precipitosa non poteva essere che uno.
Strinse i denti e si augurò di poter almeno morire con la stessa dignità di cui faceva sfoggio apparentemente il dottor Cosgrove… ma al momento dell’impatto, urlò. La sua voce andò sommersa nel prolungato frastuono metallico, poi l’aereo tornò a sollevarsi con un balzo pazzesco e roteante, che culminò in un altro incredibile bailamme di rumori, provocato dall’urto degli oggetti mobili che rotolavano nella fusoliera. L’incubo durò un’eternità, durante la quale le luci interne si spensero, ma cessò di colpo. E Soderman scoprì che respirava ancora… gli sembrava impossibile, ma era miracolosamente vivo.
Pochi minuti dopo, stava davanti a uno sportello d’emergenza e fissava, nel buio della notte, la faccia luminosa del suo salvatore.