Cortine striate di luce rossa e verde danzavano tremolando da un orizzonte all’altro, illuminando la distesa di neve con una luminosità fantastica, teatrale. Era un’aurora boreale d’intensità soprannaturale.
— Questo dimostra quanto dicevo prima circa il fatto che la fascia di Van Allen è sovraccarica — commentò con voce normale il dottor Cosgrove, alle sue spalle. — Il flusso dei corpuscoli solari satura gli strati superiori dell’atmosfera di particelle cariche che vengono assorbite dai poli magnetici. La loro rappresentazione visibile, cui, a quanto pare, dobbiamo la vita, non è che un aspetto…
Ma Soderman aveva già smesso di ascoltarlo… era troppo immerso nell’indicibile piacere di sentirsi vivo.
Il dottor Fergus B. Raphael sedeva tranquillo al volante della sua macchina, guardando al di là del cemento sporco di macchie d’olio del parcheggio universitario.
Stava prendendo in seria considerazione l’idea di fare dietrofront e andare verso l’oceano, per non fare mai più ritorno nei circoli accademici. Qualche volta il suo lavoro lo aveva riempito di entusiasmo, tanto da compensare anche la consapevolezza di non poterne mai ricavare quello che avrebbe potuto raggiungere in altri campi. Ma gli anni avevano avuto il loro peso: quegli anni vissuti a seguire la strada sbagliata della ricerca scientifica. E ora era stanco.
Scacciò la falsa certezza che, volendo, avrebbe potuto andarsene in qualsiasi momento, e uscì dalla macchina.
Il cielo era coperto e le foglie degli ippocastani frusciavano sotto le folate invadenti del vento freddo. Raphael rialzò il bavero della giacca e si avviò verso l’edificio dell’università. La giornata si prospettava uguale a infinite altre che l’avevano preceduta.
Mezz’ora dopo aveva predisposto tutto per il primo esperimento della mattinata. Il volontario era Joe Washburn, un giovane studente nero che aveva dato promettenti risultati in una serie di prove.
Raphael si portò il microfono alla bocca. — Pronto, Joe?
Washburn assentì e fece un cenno con la mano a Raphael, attraverso il finestrino della cabina a isolamento acustico. Raphael girò un interruttore ed eseguì lo stesso controllo con la sua assistente, Jean Ard, che aveva preso posto in un’altra cabina, all’estremità opposta del laboratorio. La ragazza gli rivolse un cenno esageratemente gaio: Raphael ne dedusse che anche lei si sentiva depressa. Avviò il registratore, poi si lasciò andare contro lo schienale della seggiola, tolse un sigaro dall’involucro e tenne gli occhi debitamente fissi sui monitor.
Pensò, e non per la prima volta: “Quanto durerà questa farsa? Quali e quante prove mi occorrono per persuadermi che la comunicazione da mente a mente è impossibile?".
Jean Ard inserì il primo simbolo, e sul monitor dell’assistente comparve un triangolo. Dietro lo spesso vetro della cabina, la sua faccia era impassibile, e Raphael si domandò se la donna cercasse sempre di concentrarsi e proiettare, o se si limitava a starsene seduta lì a premere bottoni, pensando all’appuntamento della sera. Pochi minuti dopo, si accese il monitor di Washburn. Un triangolo. Raphael accese il sigaro e si accinse ad aspettare il momento di andare a prendere un caffè. Un quadrato comparve sul monitor di Jane, seguito da un quadrato su quello di Washburn. Lei ritrasmise un triangolo, e Washburn rispose in modo identico. Poi un cerchio e una stella, e Washburn trasmise un cerchio e una stella. A dispetto di se stesso, Raphael sentì che i battiti del suo cuore acceleravano e sentì rinascere la vecchia febbre nervosa che avrebbe potuto far di lui un giocatore cronico, se non avesse trovato il modo di sublimarla nella ricerca. Osservò attentamente Jean che continuava a premere a caso i pulsanti corrispondenti ai cinque simboli astratti di cui si servivano per gli esperimenti di telepatia. Otto minuti dopo, aveva completato la prova di cinquanta proiezioni.
E Joe aveva risposto esattamente cinquanta volte.
Raphael schiacciò il mozzicone del sigaro con mano tremante. Aveva addosso un freddo mortale quando afferrò il microfono, ma mantenne la voce più calma che poté: non voleva turbare minimamente l’esperimento.
— È andato bene come rodaggio, Jean e Joe — si limitò a dire. — Proviamo un’altra serie. — I due annuirono. Poi Raphael premette un pulsante che serviva a collegarlo solo con Jean. — Vorrei che stavolta adoperassi tanto i simboli astratti che quelli di rapporto.
Si chinò sul pannello dei comandi a fissare i monitor con gli occhi di uno che stesse giocando alla roulette russa. L’aggiunta di cinque simboli (albero, auto, cane, sedia, uomo) portava la serie a dieci, e diminuiva di molto la probabilità di successo.
Washburn fece un solo errore nella successiva serie di cinquanta, e nessuno nelle altre tre.
Raphael decise di dar libero sfogo ai demoni dell’emozione e della soddisfazione.
— Sentite, voi due — disse con voce alterata — non so cosa vi succeda, ma finora l’esito è positivo al cento per cento, e non occorre che vi dica cosa significhi questo. E adesso, diamoci dentro e vediamo un po’ fino a che punto potremo arrivare.
Washburn commise quattro errori nella serie seguente, due in quella successiva e nessuno nelle ultime cinque. Tanto lui che Jean vollero esaminare con i propri occhi la registrazione dell’esperimento, prima di convincersi che non c’erano trucchi, che non si trattava di un nuovo fattore ideato da Raphael per rendere più complessi gli esperimenti. Quando furono persuasi, si scambiarono uno sguardo cauto, interrogativo.
— Adesso credo che ci voglia proprio un buon caffè, Jean — disse Raphael. — Bisognerà rifletterci un po’ sopra.
Mentre Jean preparava il caffè, Joe Washburn andava su e giù per il laboratorio sorridendo, scuotendo la testa e battendo il pugno sul palmo dell’altra mano. Raphael accese un secondo sigaro, ma lo mise subito giù sentendo il bisogno urgente di comunicare a qualcuno quello che era successo. Andò al telefono, e stava sollevando il ricevitore, quando l’apparecchio squillò.
— Un’intercomunale per voi, dottor Raphael — disse la centralinista dell’università. — È il professor Morrison, da Cleveland.
— Grazie — mormorò Raphael, colpito dalla coincidenza. Aveva avuto intenzione di chiamare proprio Morrison, che, fra il ristretto gruppo di persone che lavoravano nel campo trascurato delle percezioni extrasensoriali, era il suo più intimo amico. Senza capire perché, intuì il motivo della chiamata di Morrison, e la sua sensazione venne confermata quando sentì la voce eccitata dell’altro.
— Pronto, Fergus? Grazie a Dio ti ho trovato… se non ne parlavo con qualcuno, scoppiavo. Non indovinerai mai cos’è successo qui.
— Io credo di sì, invece.
— E allora, prova.
— Hai ottenuto un risultato positivo al cento per cento negli esperimenti di telepatia.
Il mormorio di sorpresa di Morrison fu perfettamente percepibile.
— Infatti. Ma come fai a saperlo?
— Forse sono telepate anch’io — disse Raphael.
8
Ci volle un giorno intero perché la costernazione suscitata in Jack Breton dalla scoperta del brano di poesia cominciasse a diminuire.
Aveva interrogato Kate in proposito il più a fondo possibile, senza destare sospetti, e quando lei gli rivelò l’origine di quei versi, finse un blando interesse per la scrittura automatica. Kate sembrava lieta e compiaciuta, e si diffuse a spiegargli tutti i particolari a lei noti delle facoltà di cui era dotata Miriam Palfrey.
Con un crescente senso di disagio, Breton aveva esaminato centinaia di campioni di scrittura automatica, e aveva saputo che quel frammento di poesia era unico nel suo genere. Per di più, era stato scritto nelle ore in cui lui stava arrivando nel Tempo B; non poteva trattarsi di una coincidenza. L’unica risposta che la sua mente fu capace di trovare, per quanto singolare fosse la circostanza, era la telepatia… e l’ultima cosa che desiderava, era che qualcuno gli leggesse nella mente.