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Lui aveva deciso sui due piedi che doveva essere una cosa magnifica anche per uno con i sensi perfettamente normali, e nei due o tre anni seguenti, il piccolo Convery non aveva mancato di dedicare ogni giorno qualche ora a cercare d’imparare il segreto. Tutto solo in camera sua, si fissava la mano destra, mentre la muoveva e contorceva in ogni modo possibile, alla ricerca della combinazione magica di flessioni e tensioni che avrebbe fatto uscire la voce dal palmo. Quando finalmente scoprì, grazie a un’altra osservazione casuale, che sua madre aveva alluso a un linguaggio fatto di gesti, aveva subito abbandonato la ricerca senza rimpianti. Aveva scoperto la verità, e questo gli bastava.

Quando il tenente Blaize Convery era un bambino di sette anni, suo padre gli aveva mostrato un disegno formato da un quadrato inserito in un cerchio e tagliato dalle diagonali. Suo padre gli aveva detto che era possibile riprodurre quel disegno senza mai sollevare la matita dal foglio né passare due volte sulla stessa linea. Nei momenti liberi, Convery aveva tentato per sei anni di risolvere quel rompicapo. Dopo un mese era virtualmente sicuro che la cosa fosse impossibile; ma suo padre, che nel frattempo era morto, aveva sostenuto che era possibile: e quindi Convery aveva continuato ad arrovellarsi sul problema. Poi, per caso, gli era capitata fra le mani una biografia popolare del matematico svizzero Leonardo Eulero, vissuto nel XVIII secolo, fondatore della topografia. L’articolo riportava la soluzione di Eulero al problema dei sette ponti di Kònigsberg, dimostrando che era possibile attraversarli tutti senza passare due volte sullo stesso ponte. Incidentalmente diceva anche che la stessa prova serviva a verificare la possibilità o meno di risolvere i disegni-rompicapo: contate le linee che passano attraverso ciascun incrocio del disegno e se in più di due ne entra un numero dispari, è impossibile tracciare il disegno senza staccare la matita o passare due volte sulla stessa linea.

Così, per la seconda volta, aveva chiuso l’archivio mentale, soddisfatto di aver raggiunto una conclusione positiva purchessia; e questo modo di pensare, che aveva fatto di lui un poliziotto fuori del comune, stava già prendendo forma e mettendosi a fuoco.

Era entrato nella polizia quasi automaticamente, ma, nonostante gli ottimi voti riportati durante i corsi, non aveva poi fatto quella folgorante carriera che ci si sarebbe potuti aspettare, Un buon agente impara a seguire le statistiche della sua professione. Si rassegna al fatto che, mentre alcuni delitti si possono risolvere, la maggior parte resta senza soluzione, e distribuisce le proprie energie di conseguenza; si accontenta del massimo dei successi e del minimo di perdite.

Invece a Blaize Convery i colleghi avevano dato il soprannome di “etichetta", perché si attaccava ai casi ed era incapace di abbandonarli una volta che aveva cominciato a occuparsene. I suoi superiori e i suoi colleghi lo rispettavano per i successi che aveva riportato, ma capitava spesso che il capo, per scherzo, andasse alla sua scrivania a portar via di nascosto qualche scartafaccio del suo schedario.

Convery si rendeva conto delle proprie idiosincrasie e sapeva che influivano negativamente sulla sua carriera. Ogni tanto si riprometteva di cambiare metodo di lavoro, e talvolta ci riusciva per qualche settimana, ma proprio quando cominciava a convincersi di aver vinto, il suo subcosciente lo spingeva a riprendere in mano qualche caso non risolto, vecchio di tre anni, e allora provava un gran senso di gelida soddisfazione. Convery sapeva che quella era la molla del suo carattere; la stessa molla che portava altri uomini grandi a diventare capi religiosi, artisti immortali, o eroi dalla vita breve ma gloriosa. Non aveva mai resistito agli allettamenti mistici: e le scarse ricompense ottenute non lo avevano mai fatto abbattere.

Adesso, mentre si allontanava in auto dalla casa dei Breton, lungo i viali alberati, Convery sentiva rinascere dentro di sé, attraverso i canali del sistema nervoso, quell’antica esaltazione.

Guidò la vecchia ma ben tenuta Plymouth costeggiando prati verdi e tornando con la mente a nove anni addietro, per rievocare il caso Breton-Spiedel. Era un caso unico, per quel che lo riguardava, e non tanto perché non l’aveva risolto (la sua carriera era costellata di fallimenti), ma perché era l’imbroglio più madornale che gli fosse mai capitato. Convery si trovava al posto di polizia quando vi avevano portato Kate Breton, quella famosa notte, e aveva saputo da lei com’erano andate le cose in quei primi momenti in cui era ancora sotto choc, mentre una donna poliziotto le toglieva dai capelli pezzetti di cervello umano. Ridotta all’osso, la storia si riduceva al fatto che lei e suo marito avevano litigato mentre stavano recandosi a una festa. Lei se n’era andata a piedi, da sola, decidendo stupidamente di prendere la scorciatoia attraverso il parco, ed era stata aggredita. Un uomo, comparso dal nulla, aveva trapassato la testa dell’assalitore con un proiettile, e poi era scomparso di nuovo nel nulla. Kate Breton s’era messa a correre, fuori di sé, finché non era svenuta.

Basandosi su questi fatti, Convery era giunto a due possibili conclusioni. Non aveva preso neppure per un attimo in considerazione la possibilità che tutto fosse successo per caso, che il misterioso sconosciuto si trovasse a passare per il parco al momento giusto, armato di fucile. Restava così la possibilità che lo sparatore fosse qualcuno che conosceva l’aggressore, e, sospettando che si trattasse di uno psicopatico con tendenze omicide, avesse fatto giustizia sommaria. Ma Convery aveva scartato subito anche questa teoria, sebbene, per dovere, avesse fatto i debiti controlli.

Si era così venuto a trovare in un vortice, al cui centro stava il marito di Kate Breton. E se il guasto alla macchina e il successivo litigio fossero stati solo un pretesto, una parte del piano preparato in precedenza? Se il marito di Kate Breton avesse voluto sbarazzarsi della moglie e avesse nascosto il fucile nel baule della macchina? In tal caso, avrebbe potuto seguirla di nascosto nel parco, ma, quando stava per sparare, era sopraggiunto l’aggressore e lui l’aveva colpito.

Anche questa teoria faceva acqua in certi punti, ma Convery era uno specialista nel turare le falle. Aveva cominciato col chiedere a Kate Breton se sapeva chi poteva essere lo sparatore. Ancora in stato di choc, lei aveva scosso la testa, ma il tenente aveva notato la curva del suo labbro inferiore accentuarsi nel formulare, senza esprimerlo a voce, un nome che incominciava per J.

E quando era andato a casa dei Breton, con la descrizione fornita dai ragazzi che avevano assistito alla sparatoria… E quando aveva letto la colpa negli occhi di Breton, era stato sicuro di aver trovato l’assassino…

La scoperta che il suo uomo era in una botte di ferro aveva ferito Convery in un modo incomprensibile. Aveva impiegato settimane a tentare di distruggere l’alibi dato a Breton dai vicini che lo avevano visto alla finestra; e aveva fatto venire i nervi a quelli della scientifica, insistendo nel dire che si erano sbagliati dichiarando che quel fucile non poteva aver sparato. Convery aveva provato con un vecchio fucile da caccia: aveva sparato, l’aveva ripulito con diverse soluzioni, e poi lo aveva coperto di polvere. Ma alla fine aveva dovuto arrendersi: Breton, malgrado fosse sicuramente il colpevole, non poteva essere toccato.

Qualunque altro poliziotto avrebbe pensato che era venuto il momento di archiviare il caso e di occuparsi di qualche altra cosa più promettente, ma il demone di Convery restava saldamente appollaiato sulla sua spalla, sussurrandogli testarde promesse di successo. E adesso, mentre procedeva verso casa, sentiva che quella voce era tornata più forte che mai. A volte, in quei nove anni, si era persuaso che le periodiche visite ai Breton erano inutili, semplici atti dettati dalla sua idea fissa; oggi, invece, aveva sentito l’odore della paura e della colpa…