D’altra parte, Kate non aveva mai badato molto al denaro ed era probabile che non avrebbe avuto la voglia né la capacità di indagare a fondo sulle transazioni finanziarie che John avrebbe dovuto fare. Jack decise che l’indomani, per prima cosa, sarebbe andato in banca, fingendosi John, per far trasferire una grossa cifra su una banca di Seattle. In seguito, se necessario, avrebbe ritirato delle somme da quel nuovo conto, per rendere più reale la sua finzione.
Andò a prendere nel ripostiglio due valigie a soffietto, le riempì di abiti, e le portò in anticamera. La pistola gli batteva contro l’anca a ogni passo. Una parte della sua mente continuava a dubitare che sarebbe stato capace di adoperarla contro John Breton, ma l’altra era selvaggiamente esaltata dall’idea che quel gesto avrebbe segnato il culmine di nove anni di appassionata dedizione; e ormai non poteva più tornare indietro. Non era lui che aveva creato John Breton, che gli aveva prestato nove anni di vita non previsti nello schema cosmico? E adesso era venuto il momento di farsi restituire il prestito. “Io do” gli venne spontaneamente fatto di pensare “e io tolgo…”
D’improvviso sentì un freddo mortale. Tremando tutto, rimase a guardarsi nello specchio dell’anticamera, finché il rombo sommesso della Turbo-Lincoln di John Breton non venne a rompere il silenzio della casa. Dopo un minuto, John entrò dalla porta posteriore e si accigliò notando le due valigie.
— Dov’è Kate? — Per tacito accordo, i due Breton avevano deciso di tralasciare le formalità dei saluti.
— È a cena dai Palfrey — rispose a fatica Jack. Avrebbe ucciso John fra pochi istanti, ma il pensiero di vedere quel corpo familiare squarciato dai proiettili lo sconcertava.
— Vedo. — John lo guardava attentamente. — Cosa fai, con le mie valigie?
Jack strinse le dita sul calcio della pistola e scosse la testa, senza riuscire a parlare.
— Hai un’aria strana — osservò John. — Ti senti poco bene?
— Me ne vado — mentì Jack, in lotta con l’intima certezza che non sarebbe mai riuscito a premere il grilletto. — Ti restituirò poi le valigie. Ho preso anche qualche vestito. Ti secca?
— No. — Gli occhi di John tradivano il sollievo. — Ma allora, vuol dire che resti nella nostra corrente temporale?
— Sì… mi basterà sapere che Kate è viva e vicina.
— Oh! — Sulla faccia quadrata di John Breton si dipinse un’espressione delusa, come se si fosse aspettato di sentire parole diverse. — Parti subito? Vuoi che ti chiami un tassi?
Jack assentì e John alzò le spalle e si voltò per andare al telefono. Una gelida paralisi attanagliava i muscoli di Jack, mentre estraeva la pistola. Si avvicinò all’altro se stesso, e gli calò il calcio sulla testa, proprio dietro l’orecchio. Mentre le ginocchia di John si piegavano, Jack inciampò e gli cadde addosso. Si ritrovò a faccia a faccia con lui. John socchiuse gli occhi ottenebrati dal dolore, e Jack vi lesse l’orrore.
— Ah, è così — mormorò John in un soffio, quasi soddisfatto, come un bambino che sta per addormentarsi. Chiuse gli occhi, ma Jack Breton tornò a colpirlo parecchie volte, coi pugni, singhiozzando mentre cercava di distruggere l’immagine della propria colpa.
Quando tornò in sé, rotolò lontano da John e rimase accosciato accanto al corpo inerte, ansimando pesantemente. Poi si alzò, salì in bagno e si piegò sul lavandino. Il metallo dei rubinetti era fresco contro la sua fronte come quella volta da ragazzo, quando aveva fatto la sua prima disastrosa esperienza con i liquori, ed era corso a piegarsi sul lavandino, lasciando liberare il suo stomaco. Ma questa volta non riuscì a ottenere sollievo così a buon prezzo.
Breton si sciacquò la faccia con l’acqua fredda, si asciugò e dedicò una cura particolare alle nocche spellate. Aprì l’armadietto farmaceutico, e gli cadde lo sguardo su una bottiglietta piena di triangoli color verde chiaro, che avevano l’aspetto generico e inconfondibile delle pastiglie di sonnifero. Breton lesse l’etichetta e ne ebbe la conferma.
Andò in cucina a riempire un bicchier d’acqua e lo portò in anticamera, dove John Breton era ancora steso sul tappeto color mostarda. Gli sollevò la testa e cominciò a infilargli le pastiglie in bocca. Il compito risultò più difficile del previsto. La bocca e la gola di John si riempivano d’acqua, e un involontario colpo di tosse faceva scendere le pastiglie nello stomaco. Jack sudava, e gli ci volle molto più tempo del previsto per far inghiottire otto pastiglie all’altro se stesso.
Infine si alzò, mise da parte la bottiglietta del sonnifero, si cacciò la pistola in tasca, e trascinò il corpo in cucina. Una rapida perquisizione nelle tasche di John, fruttò a Jack un portafoglio provvisto di tutti i documenti che gli sarebbero serviti per il futuro, e un mazzo di chiavi, fra cui quella della Lincoln.
Uscì, salì in macchina, e, innestata la retromarcia, risalì il vialetto posteriore in modo da arrivare col paraurti all’altezza del traliccio del patio, coperto d’edera. Il sole pomeridiano era tiepido, e di lontano, oltre le siepi e gli alberi, si sentiva ancora il ronzio della falciatrice.
John era immobile come un morto, e aveva la faccia pallidissima segnata da un rivoletto di sangue che, dal naso, gli solcava una guancia.
Breton trascinò il corpo fuori e lo caricò nel portabagagli dell’auto. Mentre sistemava le gambe, si accorse che John aveva perso un mocassino. Riabbassò il coperchio del portabagagli senza chiuderlo a chiave, e tornò in cucina. La scarpa era caduta sulla soglia.
Breton la raccolse, e stava tornando alla Lincoln, quando s’imbatté nel tenente Convery.
— Mi spiace di dovervi disturbare di nuovo, John. — Gli occhi azzurri del tenente erano vividi, intenti, e avevano una luce maliziosa. — Ma temo di aver dimenticato qui una cosa.
— Non… non ho trovato niente.
Breton sentiva le parole che gli uscivano di bocca e si meravigliò che il suo corpo fosse capace di dominare la situazione comportandosi normalmente, mentre il suo cervello non si era ancora ripreso dal colpo. Che cosa faceva lì, Convery? Era la seconda volta nello stesso giorno che sbucava all’improvviso nel patio, nel momento meno opportuno.
— È il fossile. Il fossile del mio bambino… non l’avevo, quando sono tornato a casa. — Convery sorrideva ironicamente, come se volesse sfidare Breton a eccitare le sue prerogative, scacciando dalla sua casa un poliziotto ficcanaso. — Non avete idea dei fastidi che ho avuto.
— Non credo che sia qui, altrimenti sono sicuro che l’avrei visto… Non è un oggetto che possa passare inosservato.
— È vero — rispose Convery con indifferenza. — L’avrò lasciato da qualche altra parte.
Breton capiva che non si trattava di una coincidenza. Convery era pericoloso… un poliziotto intelligente e tenace, il tipo peggiore. Un uomo che si lasciava guidare dall’istinto e che restava attaccato tenacemente alle idee, anche contro la logica e l’evidenza. Ecco perché, ogni tanto, era tornato da Breton in quei nove anni: nutriva dei sospetti. Quale scherzo vendicativo del destino, pensò Breton, aveva portato quel superpoliziotto ostinato sulla scena che lui aveva preparato con tanta cura in quella notte di ottobre?
— Avete perso una scarpa, John?
— Una scarpa? — Breton seguì la direzione dello sguardo di Convery e si accorse di avere in mano un mocassino nero. — Oh, sì. Ero distratto.
— Capita, quando si ha qualcos’altro per la testa… Pensate un po’ al mio fossile.
— Io non ho niente altro per la testa — si affrettò a dichiarare Breton. — E voi? C’è qualcosa che vi preoccupa?
Convery si era avvicinato alla Lincoln e vi si era appoggiato, con una mano sul coperchio del portabagagli. — Niente… è che cerco di parlare con le mani.
— Non capisco.
— Non ha importanza. A proposito di mani… vedo che avete le nocche sbucciate. Vi siete picchiato con qualcuno?