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“Tanto ormai non importa” pensò.

Ma anche quando ebbe spaccato la cassa, il lavoro non volle riuscirgli bene. Il legno sottile si scheggiava, o si divideva in listerelle sottili quando cercava di tagliarlo e non era capace di infilarci i chiodi. Tuttavia continuò a lavorare con tenacia senza interrompersi per mangiare e nemmeno per asciugare il sudore che gli colava giù per le guance pelose. Solo nel tardo pomeriggio riuscì a terminare la rozza struttura che rispondeva malamente alle esigenze del progetto.

I morsi della fame gli torcevano lo stomaco, ma, per fortuna, né Ada né Emily mostrarono la faccia occhialuta sulla porta che dava nel cortile; e Willy decise di terminare al più presto il suo lavoro.

Trovò un barattolo di vernice rossa e un pennello, e si rimise all’opera, lasciandosi sfuggire a tratti qualche gemito; dedicava al lavoro tutta la concentrazione di cui la sua mente era capace.

Quando ebbe finito, erano già le cinque passate e, dal momento che doveva lasciare asciugare la vernice, decise di andare a darsi una pulitina e di mangiare qualcosa. Salì a quattro a quattro i gradini della scala buia, si lavò la faccia, e indossò con gesti febbrili l’abito della domenica, che gli pareva adatto alla circostanza. Soddisfatto che fuori fosse ancora giorno, scese in cortile, ansando per la fretta.

Nello stretto corridoio dietro il negozio, andò a sbattere contro suo fratello Joe che stava tornando dal lavoro.

— Be’ — disse Joe dominando l’ira. — L’hai fatto?

Willy lo fissò a bocca aperta. Si era completamente dimenticato dell’incarico di imbiancare il cortile. — Ah… non ho avuto tempo. Avevo troppo da fare.

— Me l’ero immaginato. — Joe afferrò Willy per i risvolti della giacca e lo spinse contro il muro posteriore della casa, con tutta la forza del suo corpo robusto.

— Fallo subito, Willy, altrimenti ti ammazzo. Ti ammazzo!

Joe aprì la porta del retro, scagliò Willy nel cortile e gli sbatté la porta alle spalle. Willy si guardò intorno sgomento per un istante, cogli occhi pieni di lacrime, poi corse nel ripostiglio a prendere il secchio della calce e un pennello. Si mise all’opera con accanimento feroce, schizzando il liquido gorgogliante sui mattoni disuguali con lunghe pennellate irregolari, senza badare ai vestiti. Dopo un’ora, i muri erano dipinti e Willy, esausto e con le mani coperte di vesciche, ripose il secchio. In quel preciso istante, la porta si aprì e Joe uscì in cortile.

— Mi dispiace di essere stato così brusco con te, Willy. — Joe aveva l’aria stanca. — Ora vieni in casa, a mangiare un boccone.

— Non voglio niente — rispose Willy.

— Senti, ti ho detto che mi dispiace… — Joe s’interruppe: aveva visto l’informe mucchio di carta fuori dalla porta dello sgabuzzino. Poi vide l’oggetto che era costato una giornata di lavoro a Joe, e disse con stupore: — Ma cosa diavolo…?

— Non ti avvicinare!

Willy si era spaventato, intuendo la reazione di Joe di fronte a quello che aveva visto, e capiva che non sarebbe riuscito a cavarsela tanto facilmente. Diede uno spintone al fratello, e corse a prendere il frutto del suo lavoro. Joe fece per trattenerlo, ma Willy, pieno d’ira divina, lo scostò con una gomitata. Con la coda dell’occhio, vide Joe cadere sul mucchio di legna, e provò un senso di trionfo. Sollevò la malferma struttura, se la caricò in spalla ed entrò con passo deciso in casa. Le clienti si misero a strillare quando entrò a precipizio nella bottega, per uscire di lì in strada. Willy non badò agli urli, né guardò le facce bianche e stupefatte delle sorelle, dietro il banco. Per la prima volta in vita sua aveva un vero posto al mondo, con qualcosa d’importante da fare, e nulla e nessuno l’avrebbe fermato.

Non badò nemmeno allo stridio dei freni, mentre usciva di corsa in strada, né al traffico delle auto che invano cercavano di rallentare, e non sentì neppure l’urto che gli fracassò le ossa. Pochi secondi dopo, non era in grado di sentire più niente.

La gente accorsa sul luogo dell’incidente, calpestò il cartello che Willy aveva così laboriosamente costruito. Su di esso era dipinta una frase a lettere rozze: LA FINE È VICINA PREPARATEVI A MORIRE.

— …ma — stava dicendo il generale Abram, costernato — se tutto questo è vero, significa…

Il dottor Rasch annuì come in sogno.

— Proprio così, caro generale. Significa la fine del mondo.

12

Appena presa la decisione, Jack Breton chiuse a chiave la porta di casa e salì di corsa in macchina.

Non sapeva quanto tempo Kate sarebbe rimasta dai Palfrey, ma doveva rincasare prima di lei, se voleva persuaderla che John se n’era andato di sua spontanea volontà. Il capanno da pesca si trovava a una quarantina di miglia a nord. Non era una gran distanza, disponendo della Turbo-Lincoln, ma una volta arrivato là avrebbe avuto alcune cose da fare e non poteva correre il rischio di attirare l’attenzione della stradale andando a rotta di collo. Si sentiva infatti abbastanza sfortunato da pensare che si sarebbe imbattuto nell’equivalente mobile del tenente Convery.

La macchina fu scossa da un leggero tremito quando lui premette il pulsante che serviva a mettere in moto la turbina; poi seguì un silenzio che pareva carico d’attesa. Solo la posizione degli indici sui quadranti stava a indicare che il motore era avviato. Breton portò l’auto in strada e puntò verso nord, col piede sull’acceleratore. Il balzo della Lincoln in conseguenza del cambio di velocità gli fece sbattere violentemente la testa all’indietro, e Jack sollevò il piede, con un senso di timore per la potenza che aveva tra le mani.

Guidò con cautela, dirigendosi a nord, finché non fu sull’autostrada per Silverstream, dove con un movimento appena accennato del piede la velocità salì a centoventi, senza che il motore cambiasse tono. “Una buona macchina” osservò fra sé. Il pensiero che era già sua gli passò rapido per la mente, ma non ci si soffermò.

Alla periferia della città, Breton si distrasse cercando le differenze percettibili fra il mondo del Tempo B e la stessa zona del Tempo A. Ma non ne trovò nessuna. Ai lati della strada correva lo stesso panorama di magazzini di legname, capannoni, trattorie, depositi di macchine usate, piccole agenzie bancarie, e, di tanto in tanto, qualche gruppo di case che parevano fuori posto. Era lo stesso panorama desolato che conosceva bene e che aveva sempre detestato. Alterando la vita di qualche essere umano, non aveva modificato l’aspetto della città.

Quando la macchina si fu lasciata alle spalle le ultime case della periferia e si trovò a correre in mezzo alle praterie del Montana, Breton aumentò la velocità; gli insetti cominciarono a spiaccicarsi sul parabrezza. Un sole color rame stava tramontando sulla sinistra portando via con sé la luce verde pavone del cielo. Lontanissimo, verso est, un punto luminoso brillava tremulo, appena al di sopra dell’orizzonte. Jack si coprì istintivamente con la mano l’occhio destro, sicuro di essere vittima dei fenomeni di teicopsia che precedevano abitualmente gli attacchi di emicrania. Ma questa volta non si trattava di fenomeni ottici, e quando tolse la mano capì che lo scintillio nel cielo era stato provocato dalla caduta di una meteorite. “Così” pensò “la pioggia di stelle continua. E cos’altro sta succedendo?