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“Alcuni individui si sono scoperti doti telepatiche, i satelliti non funzionano ed escono dall’orbita, le radiazioni solari influiscono sulle comunicazioni radio, fanatici religiosi predicano la fine del mondo…”

Breton accese la radio.

“…della NASA ha raccomandato che tutte le aviolinee che effettuano trasporti supersonici abbassino il loro tetto operativo a quindicimila metri fino a nuovo avviso. Questa limitazione è stata imposta dal crescente aumento delle radiazioni cosmiche, che gli scienziati considerano dannose alla salute di chi effettua lunghi voli ad altissima quota. Washington, D.C. Questa mattina…”

Breton si affrettò a spegnere, con la strana sensazione che il suo futuro e quello di Kate fossero minacciati. Il desiderio di lei gli provocò un fremito. Quella notte sarebbero stati soli. Ricordi del primo bacio; la visione dei seni di Kate che sgusciavano vivi e liberi dal reggiseno di nylon, delle sue cosce che avevano la compatta levigatezza dell’avorio… un’ondata di sensualità riempì la mente di Breton, che non fu più capace di pensare ad altro che al supremo miracolo dell’esistenza di Kate.

Con uno sforzo, si costrinse a concentrarsi sulle necessità immediate, facendo attenzione che la linea bianca spartitraffico si mantenesse sempre alla sua sinistra, e ripulendo di tanto in tanto il parabrezza dagli insetti schiacciati. Ma l’immagine di Kate era lì davanti ai suoi occhi, e lui sapeva che non l’avrebbe mai più lasciata andare.

Il sole era sceso sotto l’orizzonte, quando Jack raggiunse le rive del Lago Pasco e svoltò dall’autostrada nell’arteria più stretta che si tuffava in una folta macchia di pini. Calava il crepuscolo, e l’oscurità avvolse la macchina non appena questa si addentrò fra gli alberi. Breton rimase incerto a un bivio, perché erano dodici anni che non tornava in quella zona. Sulla riva meridionale c’era un villino coperto d’edera, che aveva sempre ammirato, anche se, a quei tempi, era molto al di sopra delle sue possibilità finanziarie. Pensava che su quello si sarebbe fermata la scelta di John Breton, una volta arricchito. Ma questa era una delle sfaccettature del Tempo B… E se i gusti di John fossero cambiati?

Imprecando contro se stesso per non aver pensato prima a informarsi con precisione sulla località dove sorgeva il capanno, Breton svoltò in un sentiero appena tracciato e si trovò poco dopo sulla riva del lago. Fece manovra sulla spiaggetta sassosa, e fermò la Lincoln fra il capanno e una darsena dipinta di verde. L’aria fredda e umida del lago gli penetrò nelle ossa attraverso gli abiti non appena fu sceso dalla macchina. Rabbrividendo, tirò fuori dalla tasca le chiavi e andò alla porta del capanno.

La terza chiave era quella giusta. Spalancò la porta e tornò alla macchina, per aprire il portabagagli. John Breton stava rannicchiato su un fianco. Era terreo, e l’odore dolciastro dell’orina si levava intorno a lui. Jack provò un senso di colpa. Aveva privato il suo altro se stesso di tutto, anche della dignità, e se ne vergognava. Tirò fuori l’uomo privo di sensi dalla cavità metallica del portabagagli e, afferrandolo per le ascelle, lo trascinò fino al capanno. Mentre saliva i tre gradini di legno, l’uomo mormorò qualcosa e tentò debolmente di divincolarsi.

— Sta’ tranquillo, non è successo niente — gli mormorò Jack. — Rilassati.

La stanza centrale era ammobiliata con pesanti seggioloni coperti di tweed. Un tavolo da pranzo in stile rustico, circondato da sedie, era sistemato in un angolo, sotto la finestra che guardava sul lago. Nella stanza si aprivano quattro porte. Jack spinse quella che, a suo giudizio, doveva portare in cantina; e, infatti, indovinò. Lasciò John steso sul pavimento e girò l’interruttore in cima alle scale, ma la cantina rimase buia. Una rapida ricerca nella stanza gli permise di trovare l’interruttore principale, nascosto in uno stipo. Abbassò la leva e, dalla porta della cantina, scaturì una vivida luce gialla.

Mentre Jack lo trascinava dabbasso, John riprese a divincolarsi. L’altro accentuò la presa, cercando di mantenere l’equilibrio per tutti e due, ma capì che stava per cadere. Allora lasciò andare John, che rotolò inerte fino in fondo alle scale e cadde con un tonfo sul pavimento di cemento, dove rimase immobile. Aveva sempre una scarpa sola.

Jack Breton lo scavalcò per andare a un banco da officina su cui si trovavano alcune parti di un motore. Aprì il lungo cassetto del bancone e trovò quel che cercava: una spoletta di lenza. L’etichetta gli confermò che era del tipo che gli occorreva, di materia sintetica, a molecole concatenate, di recente invenzione. Pareva un sottilissimo filo di seta, ma era dotato di una resistenza alla trazione che si poteva misurare a migliaia di tonnellate. Ne tagliò due pezzi, servendosi della speciale ghigliottina a pressione inserita nella spola. Con un pezzo, legò i polsi di John dietro la schiena, con il secondo più lungo fece un nodo intorno a una delle travi del soffitto e legò l’altro capo intorno a un braccio di John, sopra al gomito. Infine si mise in tasca la spola, perché John non riuscisse a trovarla, in un secondo tempo, e non potesse tagliare il filo e liberarsi.

— Cosa mi fai? — John aveva la lingua impastata, ma era lucido.

Jack stava stringendo l’ultimo nodo.

— Ti lego, così non c’è pericolo che tu possa darmi fastidio.

— L’avevo immaginato. Ma perché mi hai portato qui? Perché non sono morto?

Malgrado l’intontimento, John riusciva a ragionare con una certa logica.

— Convery è venuto oggi… due volte. Cominciavo a essere preoccupato.

— Ti capisco. — John cercò di ridere. — Specialmente se è venuto due volte, cosa che non aveva mai fatto prima, nemmeno quando voleva a tutti i costi affibbiarmi la colpa della morte di Spiedel. Ti ha letto nell’anima. Convery è capace di leggere nell’anima, sai?… — John s’interruppe, sopraffatto da un conato di vomito. Girò la testa e rigettò sul pavimento polveroso, mentre Jack provava un improvviso senso di sgomento. Un’idea andava prendendo forma nella sua mente; salì di sopra, uscì e andò a prendere le due valigie piene di vestiti di John che erano rimaste in macchina. Ritrovò John accasciato su un fianco, ma ancora in sé, con gli occhi attenti.

— Perché le valigie?

— Te ne sei andato piantando tua moglie.

— E sei convinto che lei ci crederà?

— Ci crederà per forza, quando vedrà che non torni.

— Capisco. — John fece una pausa e poi aggiunse: — Vuoi tenermi qui, finché non sarai sicuro di esserti liberato dagli eventuali sospetti di Convery. Poi…

— Esatto. — Jack depose le valigie. — Poi…

— Questa è grossa. Davvero grossa! — esclamò con amarezza John. — Ma lo sai che sei matto?

— Ti ho già spiegato tutto. Ti ho regalato nove anni di vita.

— Non mi hai regalato un bel niente. È stato… un sottoprodotto dei tuoi progetti.

— Comunque, è avvenuto.

— Se pensi che io possa farmi una ragione di essere ammazzato da te… questa è una prova lampante della tua pazzia. — John chiuse per un istante gli occhi. — Sei malato, Jack. E stai perdendo il tuo tempo. L’unico motivo per cui sei riuscito a metterti fra me e Kate è stato perché eravamo ormai a un punto tale, che solo l’intervento di un terzo poteva risolvere la nostra situazione. Ma Kate imparerà a conoscerti… e allora scapperà, Jack. Se la darà a gambe.

Jack lo guardava. — Cerchi di guadagnare tempo parlando. Non funziona. Questo non è uno di quei vecchi film che ti piacciono.

— Lo so. So che è tutto vero. Ti ricordi com’era nonno Breton, quella mattina che io… che noi… l’abbiamo trovato nel letto?

Jack annuì. La chiamarono propulsione involontaria dei globi oculari. Allora lui aveva otto anni, e la definizione tecnica non gli era stata proprio di alcun conforto.

— Ricordo.

— Quella mattina decisi che non sarei mai morto.