— Non sembrate sorpreso di vederci, signor Breton — disse lentamente Convery. Aveva una faccia larga, cotta dal sole e un naso piccolo che si distingueva appena tra gli occhi azzurri molto distanziati.
— Cosa volete, tenente?
— Avete un fucile, signor Breton?
— Ah… sì. — Breton era sbalordito.
— Vi spiace andarlo a prendere?
— Sentite, potrei sapere cosa succede?
Gli occhi di Convery erano svegli, attenti. — Uno dei miei uomini vi accompagnerà, mentre andate a prendere il fucile.
Breton alzò le spalle e precedette il poliziotto nell’officina dello scantinato. Poteva sentire in modo palpabile la tensione dell’altro mentre scendevano la scala di legno che portava alla cantina, e si fermò indicando l’armadio in cui custodiva un guazzabuglio di attrezzi: lenze, l’equipaggiamento per il tiro con l’arco e il fucile. Il poliziotto gli passò davanti, aprì l’armadio e tirò fuori il fucile dopo aver liberato la cinghia da un amo che vi si era impigliato.
Tornati in soggiorno, Convery prese il fucile e fece scorrere un dito sul leggero strato di polvere che copriva il calcio. — Non l’adoperate molto.
— No. L’ultima volta è stato un paio d’anni prima di sposarmi.
— Uhm. È un modello ad aria compressa, vero?
— Sì. — Lo stupore cresceva sempre più dentro di lui fino a provocargli un senso di oppressione. Cos’era successo?
— Brutti aggeggi! — commentò Convery. — Spappolano gli animali. Non capisco perché la gente li adoperi.
— Perché hanno un ottimo meccanismo. — spiegò Breton. — E a me piacciono i meccanismi che funzionano bene. Oh, dimenticavo… questo non funziona.
— Come mai?
— Una volta ho abbassato l’otturatore, e credo di aver guastato il percussore.
— Uhm. — Convery tolse l’otturatore, lo esaminò, annusò la culatta, sbirciò attraverso la canna la lampada da tavolo, poi restituì il fucile al poliziotto. — È l’unico fucile che avete?
— Sì. Sentite, tenente mi sembra che le cose stiano andando troppo per le lunghe. Perché siete venuti? — Breton esitò. — È successo qualcosa a mia moglie?
— Pensavo che non vi sareste mai deciso a chiedermelo. — Gli occhi azzurri di Convery rimasero fissi sulla faccia di Breton. — Vostra moglie sta bene. È stata così avventata da attraversare il parco stasera, da sola, e un uomo l’ha assalita… Ma sta bene.
— Non capisco… come può star bene se è stata assalita?
— Be’, ha avuto molta fortuna, signor Breton. Un altro uomo che, fra parentesi, corrisponde alla vostra descrizione, è comparso da dietro un albero e ha fatto saltare la testa dell’assalitore con una fucilata.
— Cosa? Non penserete… Dov’è adesso quell’uomo?
Convery sorrise. — Non lo sappiamo. Sembra che sia svanito…
…Un senso di dolorante vastità, un mutamento di prospettiva e parallasse, inimmaginabili transizioni in cui le curve dello spazio-tempo ondeggiano tra il positivo e il negativo, e l’infinito si apre al centro minaccioso, illusorio, pungente…
— Guardalo come beve! — stava dicendo Gordon Palfrey. — Stasera vuol proprio andare in orbita.
Gli altri si voltarono a guardare Breton che, in preda al disperato bisogno di trovare il tempo per riacquistare l’orientamento, rivolse a tutti un sorriso vacuo e si lasciò sprofondare nella poltrona. Notò che gli occhi di Kate avevano un’espressione indagatrice, e si chiese se un osservatore estraneo avesse mai la possibilità di scoprire che si era totalmente estraniato dalla realtà. Un analista di nome Fusciardi, dopo un’indagine con scarsi risultati, lo aveva rassicurato, dicendo che quelle assenze di coscienza avevano la durata di pochissimi istanti. Breton tuttavia faticava a crederci perché spesso i viaggi coprivano parecchie ore di tempo soggettivo. Fusciardi aveva aggiunto che il suo caso era insolito, ma non unico; insolita era la capacità di ricordare fatti e avvenimenti lontani apparentemente durati ore ma che, nel tempo oggettivo, duravano solo qualche frazione di secondo. Aveva anche proposto di riferire il caso a un gruppo di psicologi a livello universitario, ma a questo punto, Breton aveva perso ogni interesse.
Si abbandonò nell’ampia poltrona, apprezzandone la solida comodità. L’episodio che aveva rievocato gli si ripresentava con sempre maggiore frequenza negli ultimi tempi; trovava la cosa deprimente, anche se Fusciardi lo aveva avvertito che gli avvenimenti chiave della sua vita, specialmente quelli in cui aveva provato una forte tensione psicologica, gli si sarebbero presentati con maggiore probabilità. Il viaggio di quella sera era stato insolitamente lungo, e l’aveva colpito ancora di più perché era cominciato quasi senza preavviso. Non era stato preceduto da nessuna di quelle turbe visive che, a detta di Fusciardi, preludevano di solito a un attacco di emicrania.
Turbato dal tuffo nel passato, Breton si sforzò di aggrapparsi maggiormente al presente, ma Kate e i Palfrey erano ancora immersi nell’esame dello strano campione di scrittura automatica. Rimase ad ascoltarli per un momento mentre eseguivano il rituale per cercare di identificare l’autore, poi lasciò che la sua mente fluttuasse nella calda nebbia alcolica. In quella serata, cominciata in un’atmosfera di monotonia distillata, erano successe molte cose insolite. “Sarei dovuto restare in ufficio con Carl” pensò Breton. I sondaggi per la “Blundell Company” dovevano essere completati nel giro di qualche giorno, e lui se l’era presa comoda anche prima che saltasse fuori quell’assurda discrepanza di venti milligal nel rilevamento al gravimetro. Forse i gravimetri non erano stati messi a punto bene. Carl era un ottimo geologo, ma nelle misurazioni sulla gravità si dovevano tener presenti moltissimi fattori: la posizione del sole e della luna, i moti delle maree, la deformazione elastica della crosta terrestre, e via dicendo. Chiunque poteva commettere un errore, persino Carl. E chiunque poteva fare o ricevere una telefonata anonima. “Ero pazzo a volerci trovare tutti quei sottintesi… sono stato colto di sorpresa, ecco tutto. Quella telefonata è stato un trabocchetto psicologico, ecco tutto. Buona sera… e buono anche il whisky. Anche i Palfrey sono delle brave persone, a prenderli dal verso giusto, specie Miriam. Non è male. Peccato che si sia lasciata influenzare dal fatto di aver avuto in dono da madre natura quella faccia da sacerdotessa egiziana ‘made in Hollywood’. Se somigliasse a Elizabeth Taylor, potrebbe venir qui anche tutte le sere… Anche se somigliasse a Robert Taylor…”
Sentendosi invischiato in una nuvola di appiccicosa benevolenza, Breton riportò l’attenzione su gli altri. In quel momento Kate stava parlando di Oscar Wilde.
— Oh, no! — protestò, senza ombra di asprezza. — Basta, con Oscar Wilde.
Kate lo ignorò, e Miriam sorrise con quel suo sorriso da statua, ma Gordon Palfrey era disposto a parlare.
— Non dicevamo che sia stato proprio Oscar Wilde a comunicare queste parole, John. Però qualcuno lo ha fatto, e lo stile di qualche brano è lo stesso delle prime prose di Wilde…
— Le sue prime prose! — lo interruppe Breton. — Qui ti voglio. Vediamo un po’… Wilde è morto verso il millenovecento, no? E adesso siamo nel millenovecentottantuno. Dunque, in ottantun anni da che sta nell’Aldilà, o che ha varcato la cortina, o come diavolo dite voialtri, non solo non è riuscito a evolversi come scrittore, ma è anche regredito fino all’inizio della sua carriera di letterato.
— Sì, ma…
— E non può trattarsi neppure di mancanza di pratica, perché, a dar retta a quel che ho letto nei libri che mi ha dato Kate, è stato uno dei più assidui, dopo la morte, fra gli esperti di scrittura automatica. Credo che Wilde sia l’unico autore della storia, la cui produzione sia aumentata dopo la morte. — Breton rise, compiaciuto nel constatare che si trovava in quel piacevole stato di ebrezza in cui era sempre capace di pensare e di parlare con maggiore intensità e velocità di quando era sobrio.