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— E con chi? — rise Breton. — Non posso certo picchiarmi da solo.

— Pensavo a quel tale che vi ha sistemato la macchina. — Convery batté la mano sul coperchio che vibrò rumorosamente. — Certe volte quegli scimmioni sporchi d’olio trattano i clienti in un modo che vien voglia di pestarli… E questo è uno dei motivi per cui bado sempre da solo alla manutenzione della mia auto.

Breton aveva la gola secca. Dunque, Convery aveva notato che la macchina non c’era, quando era venuto la prima volta — No, no — disse. — Non ho mai litigato con gli operai della stazione di servizio.

— Che cosa stavate facendo? — domandò il poliziotto guardando la Lincoln con l’occhio sdegnoso di chi se ne intende.

— I freni vanno registrati.

— Ah sì? Credevo che su questo tipo di macchine la registrazione dei freni fosse automatica.

— Può darsi che lo sia… non ci ho mai guardato. — Breton cominciava a chiedersi se le cose sarebbero andate ancora per le lunghe. — L’unica cosa che so, è che non frena bene.

— Volete un consiglio? Accertatevi che i bulloni delle ruote siano avvitati bene, prima di muovervi. Ho visto macchine che non frenavano bene, e la colpa era delle ruote male assicurate.

— Sono certo che le mie sono a postissimo.

— Non fidatevi troppo, John… Non c’è nulla come una ruota d’auto che riesca a stare a posto pur non essendo assicurata bene.

Poi, prima che lui facesse in tempo a muoversi, con un rapido scatto Convery girò dietro la macchina, afferrò la maniglia del portabagagli e sollevò il coperchio, voltandosi a guardare Breton con aria trionfante. Poi lo riabbassò di colpo, girando la maniglia in posizione di fermo.

— Visto? Avrebbe potuto aprirsi in corsa, e sarebbe stato pericoloso. Ve l’avevo detto, io: bisogna stare molto attenti.

— Grazie — mormorò Breton con un filo di voce.

— Vi sono molto riconoscente.

— Oh, niente… fa parte del servizio ai contribuenti. — Convery si grattò pensosamente un orecchio.

— Be’, adesso devo andare. C’è una festa di compleanno, per i miei bambini, e io non sarei nemmeno dovuto uscire. Arrivederci.

— A presto — rispose Breton. — Venite quando volete.

Aspettò un momento, incerto, poi seguì Convery, girando intorno alla casa, e raggiunse il vialetto anteriore appena in tempo per vedere una berlina verde allontanarsi rombando. Una brezza leggera faceva sollevare le foglie davanti a lui, quando si voltò per tornare alla Lincoln. L’ultima frase del poliziotto era significativa. Gli aveva fatto capire di non essere andato lì per caso, né per fargli una visita amichevole; e inoltre, Convery non era tipo da dare informazioni inutili e non richieste. Breton aveva la netta impressione di aver ricevuto un avvertimento… E questo lo metteva in una posizione ambigua e forse anche pericolosa.

Non poteva correre il rischio di ammazzare John Breton, mentre Convery continuava ancora a girare nei paraggi, in attesa che succedesse qualche cosa.

Eppure non poteva nemmeno lasciar in vita Breton, dopo quanto era accaduto… e aveva pochissimo tempo a disposizione per risolvere il dilemma.

11

Erano trascorsi parecchi decenni da quando il generale Theodor Abram aveva messo piede su un campo di battaglia, ma era sempre convinto di vivere in una specie di provvisoria terra di nessuno, che divideva due delle più grandi macchine da guerra mai viste nell’antica e insanguinata storia della regione.

Non passava un’ora, un minuto, un solo istante, senza che la sua mente fosse dominata dalla consapevolezza che lui rappresentava una parte essenziale nelle linee difensive del suo paese. Se mai fosse scoppiato il conflitto decisivo, non gli avrebbero chiesto di schiacciare dei bottoni. I suoi strumenti erano di carta, non di acciaio, però era ugualmente un guerriero, e il peso delle responsabilità della preparazione tecnica lo faceva sentire un patriota e un eroe.

L’incubo del generale Abram nasceva dal fatto che aveva due specie completamente diverse di nemici.

Uno era la nazione contro cui il suo popolo sarebbe stato chiamato un giorno a combattere; l’altro era rappresentato dai missili e dai tecnici che li progettavano e si occupavano della loro manutenzione. Sgretolata fortezza d’uomo creato dalla natura per combattere con la mazza e la spada, il generale Abram era dotato di scarso istinto per la tecnologia bellica, e ancor meno per l’interminabile attesa che costituiva l’alternativa a una guerra tecnologica. Per quanto gli era possibile, evitava di recarsi personalmente a visitare le basi sotterranee… Capitava troppo spesso che sette missili di una batteria da otto presentassero qualche difetto di funzionamento in quelle loro anime così maledettamente complicate.

I tecnici di turno parevano non tenere conto del fatto che questi “trascurabili difetti” e le conseguenti sostituzioni e collaudi riducevano il potenziale d’attacco del paese a una frazione del suo valore nominale.

Abram non riusciva a comprendere perché un missile balistico dovesse esser composto da un milione di parti. E capiva ancor meno le regole matematiche secondo cui un insieme di singoli pezzi in perfetta efficienza e in così gran numero dava invariabilmente un risultato capriccioso e variabile Da quando ricopriva quella carica, e cioè da anni, il generale aveva imparato a disprezzare dal profondo del cuore gli scienziati e i tecnici che gli avevano imposto simili circostanze e non perdeva l’occasione di dimostrarlo.

Guardò l’orologio. Il dottor Rasch, capo degli scienziati che lavoravano per il ministero della Difesa, aveva telefonato poco prima chiedendo un appuntamento, e doveva arrivare di lì a pochi minuti.

Il pensiero di essere costretto a sopportare nel tardo pomeriggio la loquacità scientifica di quell’ometto magro, faceva gemere i nervi già tesi del generale Abram, come un temporale fa gemere i cavi dell’alta tensione. Quando sentì la porta esterna del suo ufficio aprirsi, si piegò sulla scrivania, truce in volto, pronto a schiacciare lo scienziato sotto il peso del suo odio.

— Buongiorno, generale — disse il dottor Rasch, entrando. — È stato molto gentile da parte vostra ricevermi con un preavviso così breve.

— ’Giorno… — Abram fissava attentamente Rasch, chiedendosi cosa fosse successo. Gli occhi giallastri dell’ometto avevano una strana luce, che poteva essere di paura ma anche di sollievo, e perfino di trionfo. — Quali sono le novità?

— Non so come dirvelo, generale — Abram si accorse che l’altro si divertiva, e la sua depressione aumentò. Dovevano aver trovato un grave difetto nel disegno di una delle parti (una pompa forse, o una valvola microscopica) che esigeva una modifica retrospettiva in tutte le installazioni.

— Spero che troverete le parole per spiegarmelo — disse con intenzione Abram. — Altrimenti non capisco perché siate venuto qui.

La faccia smunta di Rasch si contrasse violentemente. — La difficoltà non dipende tanto dalla mia abilità di esprimermi, quanto dalla vostra di comprendere. — Anche in preda all’ira, Rasch parlava sempre con cauta e misurata pedanteria.

— Semplificate le cose, in modo che possa capirle — ribatté Abram, in tono di sfida.

— Bene, generale. Immagino che abbiate notato la pioggia di stelle cadenti delle ultime notti.

— Un bellissimo spettacolo — disse ironico Abram. — Siete venuto per parlarne con me?

— Indirettamente. Avete saputo qual è la causa di questo spettacolo senza precedenti?

— Può darsi, ma comunque me la sono già dimenticata. Non ho tempo per le frivolezze scientifiche.

— Allora ve la ricorderò. — Rasch aveva riacquistato tutta la sua padronanza, cosa che seccava vagamente ad Abram. — Ormai non ci sono più dubbi che la forza di gravità stia diminuendo. Normalmente, la Terra percorre un’orbita che da tempo è priva di detriti cosmici. Ora però, c’è questo nuovo cambiamento nella costante gravitazionale, l’orbita ne è nuovamente infestata, in parte per lo spostamento del nostro pianeta, ma soprattutto in seguito all’effetto ancora maggiore esercitato sui corpi più piccoli. La pioggia di stelle cadenti è una prova visibile del fatto che la forza di gravità…