Breton uscì in giardino. Rimase sorpreso nel constatare che il sole era appena tramontato. Ogni minuto di quella giornata era stato eterno, ma le ore erano passate in fretta. L’aria andava raffreddandosi, e i colori della notte stavano già lentamente tingendo il cielo a oriente, dove le stelle cadenti segnavano un rapido solco luminoso e sparivano. Come già gli era capitato la sera prima, guardandole provò un vago senso di allarme. Il pensiero di trascorrere un’altra notte, solo sotto quel cielo malato, era superiore alle sue forze.
Si affrettò a rientrare in casa e sbatté la porta. Kate era alla finestra del soggiorno, al buio, e guardava gli alberi colorati di ottobre.
Lui le si avvicinò, la strinse alle spalle, e affondò la faccia nei suoi capelli.
— Kate — disse, disperato. — Parliamo troppo. Abbiamo tanto bisogno l’uno dell’altra, e non facciamo che parlare.
Kate s’irrigidì. — Per piacere, lasciami in pace.
— Ma, Kate… — La costrinse a voltarsi verso di lui.
— Voglio che tu mi lasci in pace!
— Ma… non ricordi quel pomeriggio…?
— Adesso è diverso! — E si scostò bruscamente.
— Perché? Perché non c’è la probabilità che John ci sorprenda? È questo che ti fa sembrare meno piccante la…
Kate lo colpì sulla bocca. Quasi nello stesso momento lui restituì lo schiaffo e sentì i denti di lei contro le nocche.
— Questo sistema ogni cosa — disse Kate. — Vattene. Lascia subito questa casa.
— Non capisci — mormorò lui, sentendosi raggelare. — Questa è casa mia, e tu sei mia moglie.
— Ho capito.
Kate corse fuori dalla stanza. Breton rimase immobile, fissando incredulo la mano, finché, attraverso il soffitto, non sentì il rumore di cassetti che si aprivano e si chiudevano. Salì di corsa in camera, e trovò Kate intenta a riempire una valigia.
— Cosa fai?
— Me ne vado dalla “tua” casa.
— Non ce n’è bisogno.
— Credi?
— No… siamo tutti e due in preda a una forte tensione. Io non…
— Me ne vado! — Kate chiuse la valigia, facendo sbattere il coperchio. — E tu non cercare d’impedirmelo.
— No. — La mente di Breton cominciava a riprendersi dalla paralisi, ad analizzare i suoi errori. Il principale era stato quello di considerare Kate alla stregua di un frutto maturo, che gli sarebbe caduto in mano non appena lui avesse scosso l’albero maritale. — Non so come scusarmi per…
— Avermi picchiato? Non preoccuparti, dopo tutto ti ho picchiato io per prima.
— Non mi lasciare, Kate. Non succederà mai più.
— Vorrei ben vedere! — esclamò lei in tono di sfida. Poi si voltò a guardarlo, quasi sorridente. — Mi prometti una cosa?
— Qualunque cosa vuoi.
— Se John si fa vivo, digli che ho bisogno di parlargli. Sarò su, al lago Pasco.
Breton si sentì mancare. — Dove? Al capanno da pesca?
— Sì.
— Non puoi andarci.
— E perché?
— È… è troppo isolato in questa stagione.
— A volte, preferisco stare sola… È così ora.
— Ma… — Breton annaspava disperato senza riuscire a trovare una scusa valida. — Puoi restare in città. Andare in albergo.
— Mi piace il lago. Per piacere, scostati. — Kate prese la valigia.
— Kate!
Breton sollevò le mani, quasi a formare una barriera, continuando a scervellarsi per trovare qualcosa da dire. Kate avanzò fino quasi a sfiorare quelle mani, poi, improvvisamente, impallidì. Lui la fissava affascinato, leggendo nella sua faccia la conclusione a cui era giunta per intuito.
— Il capanno — mormorò Kate. — John è al capanno.
— Ma è ridicolo.
— Che cosa gli hai fatto? Perché non vuoi che ci vada?
— Kate, dammi retta… non sai quel che dici.
Lei annuì, calma, depose la valigia davanti a lui, e fece per sorpassarlo. Breton l’afferrò per un braccio, e la costrinse a sedere sul letto. Kate si mise a graffiarlo e a scalciare. Mentre cercava di ridurla alla ragione, Jack riuscì finalmente a formulare la menzogna con cui sarebbe forse riuscito a salvare la situazione.
— D’accordo, Kate, hai vinto — ansimò, mentre lei continuava a guizzare e a contorcersi sotto di lui. — Hai vinto. Ti dirò tutto.
— Cos’hai fatto a John?
— Niente. Gli ho dato il mio cronomotore, ecco tutto. È andato al capanno per imparare a usarlo, in modo da poter andare a prendere il mio posto nel Tempo A. L’idea è stata sua. Gli è parso il modo migliore per risolvere la situazione.
— Io ci vado lo stesso! — Kate non si dava per vinta, e per poco non lo fece cadere.
— Mi spiace, Kate… ma non puoi, finché non sarò sicuro che John sia partito.
Anche in quel momento critico, Breton si rendeva conto di quanto fosse debole la sua scusa, ma gli offriva la scappatoia di cui aveva bisogno. Una volta che John fosse morto e atomizzato, nessuno al mondo avrebbe prestato fede a Kate se lo avesse accusato di assassinio. E, intanto, lui avrebbe potuto sopire tutti i sospetti di lei. La certezza nel suo destino, covata per nove anni d’angoscia, si ridestò viva in lui, spazzando via i dubbi sorti in quegli ultimi giorni. Lui aveva creato l’universo del Tempo B, lui aveva creato Kate… e li stringeva ancora in pugno. Per raggiungere lo scopo, gli ci sarebbe voluto un po’ più di tempo del previsto, ecco tutto…
Sollevò la testa un momento dopo la lotta con Kate, e si guardò intorno. La porta di un armadio a muro era rimasta aperta, da quando lei aveva tirato fuori gli abiti. Breton trascinò Kate giù dal letto, la spinse nel vano e richiuse le ante scorrevoli. Dopo averci ripensato, tirò fuori di tasca la lenza e ne avvolse un tratto intorno alle maniglie, trasformando così l’armadio a muro in prigione.
Ansimando pesantemente, e tamponandosi col fazzoletto la faccia graffiata, scese poi di corsa in giardino e montò in macchina. Aveva ancora una cosa da fare, quel giorno.
Una cosa relativamente semplice: proiettare John Breton non nel Tempo A, ma nell’eternità.
15
Blaize Convery portò alla scrivania una tazzina di plastica piena di caffè e la posò con cura sulla destra. Poi sedette sulla cigolante poltroncina girevole e aprì il cassetto della scrivania. Ne estrasse la pipa, la borsa del tabacco, e un fascio di nettapipe di lana bianca. Depose il tutto sul ripiano, formando un quadrato, con l’aria dell’abile artigiano che sistemi i suoi strumenti di lavoro. Poi aprì un cassetto profondo, ne trasse uno schedario di metallo colorato, lo piazzò al centro del quadrato che aveva preparato con tanta cura, e infine, con un sospiro, incominciò a sfogliarlo.
Era una monotona giornata di routine, in cui aveva camminato molto per tenere dietro a un caso, che, sebbene risolto felicemente un mese prima, si trascinava appresso un groviglio di conseguenze legali. Era salito e sceso di macchina almeno cinquanta volte per riuscire a ottenere tre firme importanti; ora sentiva male alla schiena e aveva i piedi gonfi. Ma era venuta la sua ora, l’ora che poteva dedicare alle sue occupazioni preferite; finito il turno, poteva seguire l’istinto, lungo il fantomatico sentiero che aveva scelto.
Sorseggiò il caffè, riempì e accese la pipa, e si lasciò trasportare nel regno della concentrazione dove le carte ingiallite e i caratteri a carbone sbiaditi sembravano prendere vita e sussurrargli i pensieri più reconditi degli uomini di cui portavano il nome. Dopo qualche minuto, Convery si lasciò andare a uno di quei viaggi a ritroso nel tempo che lo sprofondavano nel passato, e la stanza in cui si trovava incominciò lentamente a svanire.