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“Devo uscire, devo trovare un piccolo ristorante rumoroso” pensò Breton “con un juke-box, tovaglie a quadretti, grossi e volgari pomodori di plastica in mezzo ai tavoli, e normali esseri umani che parlano del più e del meno.”

Accese le luci in tutta la casa, si rinfrescò e si cambiò. Stava uscendo quando vide un’auto che risaliva lungo il vialetto. Lo sportello di destra si aprì e ne scese Hetty Calder, che guardò con disgusto la neve e vi fece cadere un po’ di cenere della sigaretta come per rappresaglia.

— Uscite? Harry e io eravamo venuti a vedere se vi occorreva qualche cosa.

Breton rimase sorpreso di constatare quanta serenità gli procurasse la vista di quella figura tozza, vestita di tweed. — Vi invito a cena — disse. — Mi farà molto piacere stare con voi.

Salì in macchina, e scambiò qualche parola con Harry Calder, un tipo di intellettuale calvo, sulla cinquantina. Il mucchio disordinato di pacchetti, sciarpe e giornali, sul sedile accanto a lui, gli ispirò un consolante senso di sicurezza, la sensazione di essere tornato nel mondo semplice e normale di tutti i giorni. Mentre attraversavano la città osservò gli addobbi natalizi, concentrandosi sui particolari, per non lasciar posto al pensiero di Kate.

— Come vi sentite, Jack? — Hetty si volse a guardare Breton, seduto in mezzo a quella confusione familiare. — Quando vi ho accompagnato a casa, oggi, avevate una brutta cera.

— Ecco, non mi sentivo molto bene. Però adesso sto meglio.

— Cos’avevate? — insisté Hetty.

Dopo un attimo di esitazione, Breton decise di provare a dire la verità. — In realtà, non ci vedo molto bene. Mi compaiono delle luci colorate davanti all’occhio destro.

E allora, inaspettatamente, Harry Calder si voltò a dire in tono comprensivo: — Prismi, disegni a zigzag? Allora siete dei nostri.

— Non capisco…

— Anch’io ho gli stessi disturbi… e poi comincia il dolore — spiegò Harry Calder. — Sono sintomi preliminari comuni a chi soffre di emicrania.

— Emicrania! — Breton sussultò. — Ma io non ho mai avuto mal di testa.

— No? Allora siete uno dei pochi fortunati… Quello che provo io dopo che tutte le luci colorate hanno smesso di ballare è davvero spiacevole, ve l’assicuro.

— Non avevo mai saputo che ci fosse un rapporto tra quei fenomeni visivi e l’emicrania — osservò Breton. — Ma, come dite voi, devo appartenere alla categoria dei fortunati.

Tuttavia il tono della sua voce suonò poco convincente anche alle sue orecchie.

Nel suo intimo, Breton si convinse della possibilità dei viaggi nel tempo attraverso un lungo travaglio doloroso che durò alcuni mesi.

Tornò al lavoro, ma scoprì che non era più in grado di formulare giudizi validi, anche nelle questioni di ordinaria amministrazione, per non parlare poi di quelle tecniche, che esulavano addirittura dalla sua comprensione. Hetty, aiutata dai tre tecnici che costituivano tutto il personale, riuscì a mantenere l’azienda sui binari della normalità. Da parte sua, specialmente nei primi tempi, si limitava a star seduto per ore alla scrivania, a fissare disegni incomprensibili, capace solo di pensare a Kate e alle sue responsabilità per la morte della moglie. A volte tentava di scrivere versi, per cristallizzare e magari spersonalizzare i suoi sentimenti per Kate. La pesante coltre di neve dell’inverno del Montana aveva sepolto il mondo nel silenzio e Breton la guardava ridursi in fanghiglia, oltre le file di macchine parcheggiate sotto la sua finestra. Pareva che il silenzio della neve avesse pervaso tutto il suo corpo, tanto che gli sembrava di sentirne il cieco lavorio, lo scorrere costante dei fluidi, l’assorbimento dell’aria, la paziente pioggia di colesterolo nelle arterie.

A intervalli di sei o sette giorni, faceva un viaggio, in cui riviveva invariabilmente quell’ultima scena con Kate. Talora gli olmi erano così trasparenti da sembrare inesistenti; altre volte, invece, erano solidi e reali, e lui aveva l’impressione di scorgere anche due figure che si muovevano sotto gli alberi, ma la luce delle vetrine e dei fari delle macchine gli impediva di distinguerle bene.

Con il continuo sviluppo interiore delle sue percezioni, riuscì a distinguere meglio i fenomeni che aveva imparato a identificare come sintomi premonitori dei viaggi. C’era una graduale intensificazione dell’attività nervosa, culminante in un senso di diffuso benessere che lo faceva illudere di essere sfuggito alla disperazione. Seguivano a breve distanza, le prime turbe visive, che iniziavano con un luccichio furtivo e poi si estendevano alla visuale di tutto l’occhio destro. E appena cominciavano a scomparire, la realtà “cambiava” e lui tornava nel passato.

La scoperta che anche altri conoscevano i fenomeni ottici aveva sorpreso Breton. Da ragazzo, aveva tentato di descriverli a qualche amico, ma aveva suscitato solo indifferenza. Anche i suoi genitori non avevano dimostrato niente più che un indulgente quanto falso interesse, e lui non era mai stato capace di convincerli che non si trattava delle stesse immagini che appaiono dopo aver chiuso gli occhi, quando si è fissato un punto luminoso. Alla fine era arrivato alla conclusione di non far cenno né dei viaggi né dei fenomeni, e, col passar degli anni, si era persuaso che quella era un’esperienza unica, destinata solo a Jack Breton. Ma la fortuita conversazione con Harry Calder aveva cambiato tutto, e l’interesse che era riuscito a suscitare in lui era l’unica cosa positiva di quei giorni tetri e amari.

Breton cominciò a passare i pomeriggi alla biblioteca pubblica, consapevole di seguire un’idea in confronto a cui la sua precedente illusione di trovare l’assassino di Kate era un progetto semplice e realistico, ma ormai incapace di sfuggire a quell’ossessione. Prima lesse articoli e trattati sull’emicrania, poi passò a testi di medicina generale, biografie di famosi sofferenti di emicrania, qualunque cosa il suo istinto gli suggerisse che potesse portarlo al punto dove voleva arrivare. Non avendo mai associato prima all’emicrania i fenomeni da cui era affetto, Breton si era fatto la vaga idea che il mal di testa fosse da imputare alla convulsa civiltà attuale. Le letture gli insegnarono invece che era un disturbo noto fin dai tempi più antichi; la conoscevano anche i Greci che l’avevano chiamato “il male di metà testa". Nella maggior parte dei casi, i disturbi visivi erano seguiti da fortissimi dolori che colpivano una metà della testa, e da nausea. Alcuni avevano la fortuna di sfuggire all’uno o all’altro dei sintomi, e c’era perfino una rara categoria di individui che li evitava entrambi. La loro malattia veniva chiamata “hemicrania sine dolore".

Una delle cose più interessanti, per quel che riguardava Breton, era la stupefacente precisione con cui le sue esperienze visive erano state descritte da altri uomini, in altre epoche. I termini medici spaziavano dalla teicopsia alla scotoma scintillante, ma quello da lui preferito per la sua precisione era “forme di fortificazione". Se n’era servito per la prima volta un medico del XVIII secolo, John Fothergill, il quale aveva scritto:

…una strana specie di scintillio nella vista, oggetti che mutano con rapidità la loro posizione apparente, circondati da angoli luminosi come quelli di una fortificazione.