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Nick si sfilò il boccaglio. Era senza fiato. «Grazie tanto per avermi aspettato, compari» balbettò. Poi, guardandosi attorno: «E questo posto, cosa sarebbe?».

Il guardiano, intanto, gli si era avvicinato di lato e stava già tirando la borsa con una delle appendici. «Eh, un minuto, bel tomo: dammi il tempo di ambientarmi!» fece Nick, dominando la paura.

Ma il guardiano non si fermò. Un’appendice tipo coltello tagliò la borsa sotto il polso di Nick, poi la afferrò, con tutto il suo oro e il suo piombo, e se la infilò chissà come nella pelle esterna semipermeabile. E mentre si girava e attraversava il pavimento per imboccare la medesima uscita presa dal tappetto e dalle piattaforme, la borsa rimase là intatta, in vista, nel suo corpo, accanto alle scatole rettangolari di controllo.

«Prego, accomodati!» riuscì a spiccicare Nick, mentre la misteriosa creatura si eclissava col bottino. «Bene, Jefferson,» disse quindi, una volta finito di togliersi la bardatura «l’uomo di casa sei tu. Che si fa, adesso?»

«Be’, professore,» rispose Troy «per quanto ne so io, il nostro compito è terminato. Se volete, possiamo rivestirci e passare per quella finestra laggiù. Saremo sulla barca in meno di cinque minuti. Se ho capito bene i messaggi, questi tizi alieni si accingono a partire molto presto.»

«Vuoi dire che è tutto qui? Che abbiamo finito?» disse Carol. Troy annuì. «Allora questa è l’esperienza più sopravvalutata dal giorno del mio primo rapporto sessuale» commentò.

Nick stava aggirandosi per la sala, in direzione opposta alla piscina e agli amici. «Ma dov’è che vai?» chiese Troy.

«Visto che ho pagato un biglietto d’ingresso salatissimo,» rispose Nick «mi pare di avere almeno diritto a un giro.» Carol e Troy lo seguirono. Attraversata la sala vuota, passarono, attraverso un’apertura tra due pannelli-pareti, dall’altra parte, in un breve corridoio coperto e buio, in fondo al quale si vedeva una luce. Entrarono così in un’altra sala, circolare e notevolmente più ampia, con l’alto soffitto da cattedrale tanto apprezzato da Carol la prima volta.

La sala non era vuota. Al centro, di fronte al terzetto, si ergeva un gigantesco cilindro chiuso e trasparente, alto complessivamente sugli otto metri e con un diametro di tre alla base. Un’orda di tubi arancione e di cavi purpurei lo collegava a un gruppo di macchine inserite nella parete retrostante. All’interno di esso si vedeva un liquido verde chiaro, con otto oggetti metallici d’oro galleggianti ad altezze diverse. Gli oggetti avevano forme diverse. Uno somigliava a una stella marina, un altro a una scatola, un terzo a una bombetta; e la sola cosa a tutti comune era il rivestimento esterno in metallo dorato. A un esame ravvicinato, il liquido rivelò la presenza di minuscole membrane, che, scompartendo il volume interno del cilindro, davano a ciascun oggetto d’oro un suo proprio sottovolume.

«Su, genio» disse Nick a Troy, dopo aver fissato il cilindro per quasi un minuto buono «spiega un po’ di che si tratta.» Carol era nel paradiso dei fotografi. Aveva quasi finito di scattare tutti i centoventotto fotogrammi immagazzinabili in un minidisco, fotografato il cilindro da tutte le angolazioni, compresi i primi piani di ciascuno degli oggetti in sospensione nel liquido, e stava ora lavorando alle macchine retrostanti. Ma smise di scattare per ascoltare la risposta di Troy.

«Be’, professore…» cominciò Troy, corrugando la fronte come in uno sforzo di concentrazione. «A quanto riesco a capire da ciò che loro hanno tentato di dirmi, questa astronave sta compiendo una missione riguardante una dozzina di pianeti sparsi in questa parte della galassia. Su ciascun pianeta, gli alieni lasciano uno degli oggetti d’oro che vedi nel cilindro, e che contengono minuscoli embrioni, o semi, biogeneticamente creati perché possano sopravvivere sul pianeta loro destinato.»

Carol si avvicinò ai due uomini. «La nave va dunque di pianeta in pianeta a seminare questi pacchetti di sementi? Sarebbe insomma una specie di Seminatrice Galattica?»

«Una specie, sì, angelo. Salvo che nel contenitore ci sono semi sia vegetali che animali. Più robot avanzati che li nutrono e allevano fino alla maturazione, ossia fino al momento in cui le creature possono svilupparsi da sole senza aiuto.»

«E tutto questo in tanto poco spazio?» chiese Nick, guardando di nuovo gli affascinanti oggetti sospesi nel liquido del cilindro. Il color oro era la sua passione… D’un tratto ricordò il tridente, e immaginò le migliaia di minuscoli embrioni pullulanti al suo interno — e la probabile loro crescita futura. C’era qualcosa che faceva paura in creature biogeneticamente create per sopravvivere sul pianeta Terra. E se poi fossero ostili?

il cuore in agitazione, si rese conto di ciò che non aveva smesso di preoccuparlo, in parte subconsciamente, dal momento in cui aveva cominciato a credere alla storia di Troy riguardo agli alieni. Perché si sono fermati sulla Terra? E cosa vogliono veramente da noi? Cominciò a pensare all’impazzata. E se quel tridente contiene esseri estremamente avanzati e destinati alla Terra, che siano amici o nemici non fa differenza, perché, presto o tardi, noi saremo finiti!

Carol e Troy stavano parlando sulle generali del modo in cui una civiltà avanzata avrebbe potuto usare i semi per colonizzare altri pianeti. Nick li ascoltava distrattamente. Non posso dirlo a Troy e nemmeno a Carol. Meglio che agisca subito, perché se gli alieni vengono a conoscere quello che sto pensando, mi fermeranno.

«Trop udì dire da Carol, che stava facendo un’altra serie di foto agli oggetti del cilindro «è solo una coincidenza che il tridente da noi trovato giovedì somigli tanto a uno di questi pacchetti di semi?»

Nick non attese la risposta di Troy. «Scusatemi» interruppe a voce alta «ma ho scordato una cosa importante. Aspettatemi qui: torno subito!»

Uscì quindi di corsa dalla sala e, percorso il corridoio, si slanciò in quella col soffitto basso e la finestra sull’oceano. Bene, non c’è più niente che mi possa fermare, si disse. E, senza fermarsi a indossare la muta, aspirò a fondo e si tuffò nella finestra. Nel risalire in superficie, ci fu un momento in cui pensò che gli stessero per scoppiare i polmoni. Ma ce la fece. Salì la scaletta e montò a bordo.

Una volta a bordo, andò immediatamente all’ultimo cassetto sotto le apparecchiature elettroniche, vi infilò la mano e afferrò il tridente d’oro, sentendo al tatto che la bacchetta-asse si era notevolmente ingrossata. Quasi due volte lo spessore di quando l’aveva presa in mano la prima volta! Aveva ragione Carol. Maledizione, perché non le ho dato retta subito? Estrasse del tutto il tridente dal cassetto. Il sole che gli stava sorgendo alle spalle gli fece notare diversi altri cambiamenti: maggior peso, denti della forchetta molto più spessi e quasi uniti, e, in più, un foro aperto in un interno soffice e appiccicoso al polo nord della più grossa delle due sfere.

Mentre studiava il tutto, si sentì improvvisamente afferrare il torace da due braccia robuste, che lo costrinsero a mollare il tridente sul piancito. «Ora buono e calmo,» disse una voce leggermente accentata «e si giri piano piano. Se collabora, non le capiterà niente di male.»

Nick si girò, e si vide davanti il capitano Winters e un marinaio alto e grasso, a lui sconosciuto, in mute subacquee. Il tenente Ramirez, che lo teneva sempre bloccato da dietro, allentò la presa e si chinò a raccogliere il tridente, che porse a Winters. «Grazie, tenente» disse questi. «Dove sono i suoi compagni, Williams? Là sotto col missile?»

Nick, lì per lì, non aprì bocca. Stavano accadendo troppe cose e troppo in fretta, sicché non riusciva ancora a integrare Winters nello scenario da lui previsto per la riconsegna del tridente all’astronave. Non appena notati i cambiamenti sulla sua superficie esterna, aveva infatti avuto la certezza che si trattava di un pacchetto di semi analogo a quelli del cilindro.