Questa è magia, pensava Carol, osservando le immagini dei bimbi muoverlesi di fronte con grazia e sapiente precisione. Questi bambini sono meravigliosi, ma non possono essere veri. Sono troppo composti, troppo padroni di sé. Dov’è la tensione, la competitività? I dubbi non le impedivano però di essere profondamente commossa dalla scena cui stava assistendo. I bimbi agivano di concerto, in gruppo, armoniosamente trascorrendo da un’attività all’altra. Il linguaggio dei loro corpi era franco e privo di timori, e il loro processo di apprendimento appariva scevro di qualsiasi nevrosi.
La danza continuava. La musica si fece più grave: a poco a poco, il bimbo spostò l’attenzione dal gioco alla compagna, la quale cominciò a ornarsi i capelli coi fiori preferiti di lui per i loro brevi incontri. Cambiarono anche i movimenti dei corpi: ai salti vivaci ed esuberanti della fase iniziale subentrarono mosse sottilmente suggestive, intese a destare e a stuzzicare il desiderio in boccio. I piccoli danzatori si toccarono, si staccarono, poi si unirono in un abbraccio.
Carol era ammaliata. Sarebbe stata forse diversa la mia vita, se avessi saputo tutto questo a cinque anni? Ricordò l’amica ricca delle vacanze estive, Jessica di Laguna Beach, che aveva poi rivista occasionalmente in anni successivi. Lei era sempre avanti a tutte, doveva esser sempre la prima. Aveva avuto rapporti sessuali con ragazzi prima ancora che a me fossero arrivate le mestruazioni. E com’è andata a finire? Tre matrimoni, tre divorzi, a soli trent’anni.
Si sforzò di impedirsi di vagare con la mente così da poter dedicare tutta la propria attenzione alla danza. D’un tratto si ricordò della macchina fotografica. Aveva appena scattato le prime foto, quando udì un rumore alle spalle. Nick che discendeva il corridoio, con in mano il tridente.
Nick fece per parlare, ma Troy lo zittì portando un dito alle labbra e indicandogli la danza. Il ritmo era cambiato, adesso. Messa in qualche modo la musica sull’automatico (sembravano ripetersi alcuni dei primi versi, ma con più strumenti e con maggior complessità tematica), i due bimbi mistirazza si unirono al bimbo biondo e alla bimba orientale nella danza. La prima impressione di Carol, prima che Nick parlasse a voce alta, fu che la danza stesse ora esplorando i tipi di amicizia tra la coppia formata e gli altri.
«Ma di che si tratta?» disse Nick. E, nell’istante in cui lo disse, il quadro svanì — bambini, danza, musica: tutto. Carol constatò stupita di esser delusa e anche un po’ seccata. «Ecco che hai rovinato tutto» disse.
Nick contemplò l’espressione severa dei compagni. «Cristo, che accoglienza!» disse, sollevando la culla. «Mi faccio il culo per andare a riprendere questo maledetto coso e, quando, torno, voi v’incazzate perché v’interrompo non so quale film.»
«Per tua informazione, signor Williams,» replicò Carol «quello a cui assistevamo non era affatto un film come gli altri. E i bimbi della danza sono della stessa specie di quelli che stanno nel tuo tridente.» Nick la guardò scettico. «Diglielo tu, Troy.»
«Ha ragione, professore» disse Troy. «Ci siamo arrivati mentre tu eri via. Il coso che hai in mano è il pacchetto di semi destinato alla Terra, e alcuni degli zigoti che contiene sono quelli che Carol chiama “superumani”; umani, cioè, biogeneticamente creati con capacità superiori alle tue e alle mie. Come i bimbi che abbiamo appena visto.»
Nick sollevò la culla ad altezza d’occhio. «Che fosse un pacchetto di semi, me l’ero figurato pure io. Ma cos’è questa stronzata dei semi umani?» Un’occhiata a Troy. «Dici sul serio, vero?» Troy annuì. Rimasero tutt’e tre a fissare l’oggetto che avevano dinnanzi, Carol spostando contìnuamente lo sguardo dal tridente al punto in cui era apparsa l’immagine dei superbambini. «Sembra una cosa impossibile,» aggiunse Nick «ma, di cose possibili, in questi ultimi…»
«Allora, cos’è che avevi scordato, Nick?» interruppe Carol. «E perché hai riportato il coso?» Nick non rispose immediatamente. «Fra parentesi, hai perso lo spettacolo di una vita» sorrise lei.
«Il tridente, avevo scordato» rispose Nick. «Mentre studiavo gli oggetti d’oro del cilindro, mi è venuto in mente che potesse essere uno dei tanti pacchetti di semi — e magari pericoloso…»
L’improvviso suono di musica d’organo che invase il corridoio in provenienza dalla grande sala fece arrestare la conversazione. Nick e Carol guardarono Troy. Questi portò il braccialetto all’orecchio come in ascolto e si aprì in un ampio sorriso. «Credo che sia l’avvio degli ultimi cinque minuti» disse. «Meglio fare l’ultima meta e sgombrare.»
Il terzetto si voltò e ripercorse il corridoio verso la sala del cilindro. Entrando, Carol e Troy videro sbalorditi, all’altro capo, un uomo in muta azzurra e bianca, reverentemente inginocchiato accanto al cilindro.
«Ah, già,» fece Nick, con una risatina nervosa «dimenticavo! Mi sono portato dietro il capitano Winters…»
Il capitano Winters si era sentito perfettamente a suo agio nell’acqua, sebbene fossero passati cinque anni dalla sua ultima immersione. Nick era sceso libero, nuotandogli a lato e usando il boccaglio di riserva collegato alle bombole portate da Winters sulla schiena. Malgrado l’urgenza, aveva ricordato che Winters era in pratica tornato principiante e quindi si era trattenuto dall’accelerare la prima parte della discesa. Quando però Winters aveva rifiutato più volte di seguirlo fino alla luce sul fondale, aveva perso la pazienza.
Tirato un ultimo, profondo respiro dal boccaglio di riserva, l’aveva afferrato per le spalle e, a gesti, gli aveva spiegato che lui, Nick, si accingeva a infilarsi nel materiale plastico, o che altro fosse, sovrastante la luce, e che lui, Winters, era libero di seguirlo o di restare. A questo punto, il capitano gli aveva dato riluttante la mano, e lui, passandogli immediatamente davanti e tirandoselo dietro, era penetrato nella membrana che separava l’astronave aliena dall’oceano.
In preda al terrore totale durante la discesa a capitombolo per lo scivolo, Winters aveva smarrito ogni orientamento e, approdato nella piscina, aveva fatto una gran fatica a rimettersi in piedi, mentre Nick ne era già fuori, ansioso di ritrovare gli amici. «Senta», gli aveva detto questi, non appena era riuscito ad attirarne l’attenzione «io ora la lascio qui per qualche minuto.» E, indicando l’uscita al capo opposto della sala: «Noi saremo nella grande sala col soffitto alto immediatamente oltre quella parete». Poi si era allontanato, portandosi dietro il misterioso oggetto d’oro della barca.
Rimasto solo, Winters si sollevò con cautela oltre il bordo della piscina e impilò metodicamente la sua attrezzatura accanto alle altre. Si guardò quindi intorno, notò le curve delle tramezze bianche e nere, e avvertì pure lui la troppa vicinanza del soffitto. Ora, stando a Williams, sarei in un punto di un’astronave aliena in temporanea sosta sulla Terra, pensò. Fin qui, però, a parte quell’ingegnosa entrata a senso unico che ancora non ho avuto il tempo di analizzare, io, di origini extraterrestri, non vedo indizi…
Confortato da tale logica, attraversò tranquillo la sala verso la parete opposta e imboccò il corridoio scuro. Ma il ritrovato senso di sicurezza andò in briciole non appena entrò nella sala dominata dall’enorme cilindro con gli oggetti d’oro sospesi nel liquido verde-pallido. Arcuando la schiena, guardò l’altissimo soffitto a volta tipo cattedrale, e si avvicinò quindi al cilindro.
Il collegamento fra il tridente di Nick e gli oggetti all’interno del cilindro fu per lui istantaneo. Devono essere pacchetti di semi destinati ad altri mondi, pensò, superando in un repentino balzo di fede la sua sobria logica. Semi di carote alte uno e ottanta e di chissà che altro, destinati a popolare alcuni fra i miliardi di mondi di questa sola galassia.