Girò intorno al cilindro come in sogno, mentre il cervello gli proiettava ininterrottamente sia ciò che Nick gli aveva detto prima dell’immersione, sia la strabiliante scena della creatura aracniforme che si era ridotta e infilata d’un balzo nell’oggetto dorato. Dunque è tutto vero. Vere le cose dette dagli scienziati circa la possibilità che lassù fra gli astri esistano orde enormi di creature viventi. Si arrestò un momento, semiascoltando gli strani suoni al di là delle pareti. E noi siamo soltanto alcuni dei molti e molti figli di Dio.
Una musica d’organo, simile per timbro a quella udita da Carol quando aveva finito di suonare Stille Nacht, ma con un tema diverso, cominciò a echeggiare nell’alto del soffitto a volta. Una musica come di chiesa. D’istinto, s’inginocchiò dinnanzi al cilindro e unì le mani in preghiera.
La musica empì la sala. E lui ascoltò nella mente l’Introduzione alla Dossologia, il breve inno udito ogni santa domenica per diciott’anni nella chiesa presbiteriana di Columbus, nell’Indiana, rivedendosi tredicenne e seduto, in paramenti di chierichetto, accanto a Betty. Le sorrise e si alzarono insieme.
Sia lode al Signore, da cui viene ogni benedizione.
Il coro cantò la prima strofa dell’inno, e il suo cervello si trovò bombardato da un montaggio di ricordi di prima e dopo i suoi dieci anni, da una sequenza di epifanie nella sua vicinanza innocente e ignara a un Dio genitoriale, presente nella parete sopra il letto o sul tetto o, al più lontano, nelle nuvole d’un pomeriggio estivo sopra Columbus. Ed ecco il bambino di otto anni pregare che il padre non scoprisse che era stato lui ad appiccare il fuoco al terreno disabitato in faccia a casa Smith; e il bambino di dieci anni reggere fra le braccia il suo cane morto, uno spaniel di nome Runtie, e implorare l’onniscente Iddio, piangendo amare lacrime, di accoglierne l’anima in cielo.
La notte prima della rappresentazione pasquale, la prima volta che L’aveva impersonato nelle ore d’agonia, l’undicenne Vernon non era riuscito a prender sonno. Col passar delle ore, aveva cominciato a temere che la memoria gli si bloccasse, facendogli dimenticare tutte le battute. E allora aveva saputo cosa fare: aveva allungato la mano sotto il guanciale e trovato il piccolo Nuovo Testamento che stava sempre là, giorno e notte. Aveva aperto a Matteo 28: «Andate dunque, e battezzate tutte le genti…» vi stava scritto.
Era stato abbastanza. Poi aveva pregato che gli venisse il sonno. E, amico, paterno, Dio aveva mandato al piccolo un’immagine di sé in atto di dare una prova spettacolosa, nella recita dell’indomani. Confortato da ciò, si era addormentato.
LodateLo, voi tutte creature terrene.
Alla seconda strofa dell’inno, Winters si sentì trasportare mentalmente ad Annapolis, nel Maryland. Era un giovane, ora, e frequentava gli ultimi due anni di università all’Accademia Navale. Le immagini che gli inondavano il cervello rappresentavano tutte il medesimo luogo, l’esterno della bella cappelletta protestante al centro della residenza universitaria. E, in quella cappella, lui entrava o usciva — con la neve, con la pioggia, e nel caldo della tarda estate, risoluto a mantenere l’impegno. Aveva fatto un patto, con Dio, anzi una sorta di contratto: tu fai la tua parte, e io farò la mia. Non era più un rapporto a senso unico. La vita aveva insegnato al giovane e serio guardamarina dell’Indiana che, a questo Dio, occorreva offrire qualcosa, se ci si voleva garantire la Sua adesione al patto.
Così, per due anni, era andato regolarmente alla cappella, almeno due volte la settimana. Non a pregare in senso stretto, bensì piuttosto a corrispondere con un Dio secolare, lettore del New York Times e del Wall Street Journal, col quale era possibile discorrere del più e del meno. Vernon Gli ricordava come lui stesse mantenendo la sua parte di contratto e Lo ringraziava del Suo mantenere la Propria. Ma, di Joanna Carr, non parlarono nemmeno una volta. Lei non c’entrava. La faccenda era tutta fra il guardiamarina Vernon Winter e Dio.
LodaLo nell’alto dei cieli, tu, schiera celeste.
Alla terza strofa dell’inno, Winters aveva ormai inconsapevolmente chinato la testa fin quasi sul pavimento, intuendo quali sarebbero state le stazioni seguenti del suo itinerario spirituale. E fu, dapprima, al largo delle coste libiche, intento a pronunciare la terribile preghiera con cui chiedeva morte e distruzione per la famiglia di Gheddafi. Col suo maturare, Dio era cambiato: era un dirigente, ora, un presidente di qualcosa di più grande d’una nazione, un ammiraglio, un giudice — un po’ distante, ma sempre accessibile nei momenti di autentico bisogno.
Onnimisericordioso non era più, però, ma era diventato severo e pronto a punire. Uccidere una bimba araba non era come bruciare il terreno disabitato davanti a casa Smith, e Dio lo riteneva ora personalmente responsabile di ogni suo atto. E c’erano peccati quasi imperdonabili, atti tanto nefandi, che poteva accadere di aspettare settimane, mesi, anni, anche, nell’anticamera del Suo tribunale, prima che Egli consentisse a porgere orecchio alle invocazioni di pietà ed espiazione.
Di nuovo, il capitano ricordò la disperata ricerca di Lui la sera nella quale, seduto accanto alla moglie sul divano, aveva guardato i videonastri registrati del bombardamento della Libia. Fiera di lui, Betty aveva registrato ogni bollettino della CBS sull’operazione in Nordafrica e gliene aveva offerto a sorpresa una proiezione completa il giorno dopo il suo ritorno a Norfolk. Solo allora era stato colpito da tutto l’orrore di ciò che aveva fatto. Lottando contro il vomito mentre la telecamera mostrava i raccapriccianti risultati dei missili sparati dai suoi aerei, era uscito barcollando nella notte, solo, e aveva vagato fino all’alba.
CercandoLo. Il rito si sarebbe ripetuto una dozzina di volte nei tre anni successivi, con lui a vagare per tutta la notte, in un’alternanza di preghiera e di passi, nella speranza d’un qualche segno che le sue preghiere venissero ascoltate. E splendide, in quelle notti, erano state luna e stelle, ma incapaci di concedere il perdono, o una tregua, all’anima turbata.
Sia lode al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo.
E Dio era così diventato per lui tenebra, vuoto. Nelle rare occasioni di preghiera, la sua mente non ne avrebbe più concepito altra immagine che non fosse oscurità, tenebra, vuoto. Fino a quel momento. Perché ora, mentre, inginocchiato davanti al cilindro, udiva la strofa finale della Dossologia e Lo pregava di perdonargli i dubbi, il desiderio di Tiffani Thomas e il suo sbandamento in genere, gli esplose dentro una luce. Dio gli parlava! Gli aveva dato finalmente un segno!
Non il segno da lui cercato, l’indizio del Suo perdono e della Sua accettazione della penitenza fatta, bensì qualcosa di molto meglio. L’esplosione di luce era una stella, una fornace solare creante elio dall’idrogeno. Mentre la telecamera mentale arretrava rapida, poté così vedere pianeti attorno a quella stella, e segni d’intelligenza su alcuni di tali pianeti, e altri pianeti e stelle in lontananza: miliardi di stelle solo in quella galassia e, oltre gli sterminati abissi intergalattici, costellazioni ancor più gigantesche di stelle e pianeti e creature viventi, estese per inconcepibili distanze in ogni direzione.
Il corpo sussultante di gioia, le lacrime agli occhi, si rese conto che Dio aveva risposto alle sue preghiere come meglio non avrebbe potuto. Quel Signore d’ogni cosa possibile e immaginabile, il cui dominio abbracciava elementi chimici ascesi a consapevolezza su milioni di mondi di un universo vasto fino all’incontabilità; quel Dio veramente onnipotente e onnipresente, non si era accontentato di rivelargli il Suo perdono, ma era andato molto oltre le sue preghiere, mostrandogli l’unità del tutto. E, non limitandosi ai problemi d’un singolo individuo di un azzurro pianetucolo da nulla orbitante attorno a un comunissimo sole giallo in uno dei bracci spiraliformi della galassia della Via Lattea, gli aveva mostrato come quella specie e il suo patrimonio d’intelligenza e spiritualità fossero collegati a ogni parte di ogni atomo del Suo grande dominio.