Di una cosa, però, non aveva tenuto conto: del controllo di sicurezza vigente all’interno della Hemingway Marina. Uno dei punti di forza della vendita degli ormeggi era stata appunto l’offerta ai proprietari di barche di un sistema di sicurezza quasi senza eguali. Ogni persona in entrata o in uscita dal porto doveva passare per un cancello elettronico adiacente alla capitaneria, dove ogni uscita e ogni entrata, più il tempo impiegato nell’attraversamento del cancello, venivano riportati ogni sera su un tabulato e archiviati nell’ufficio di sicurezza come misura precauzionale in caso di segnalazione di eventi sospetti o incresciosi. Come misura preventiva contro il furto di costose apparecchiature di navigazione e di strumenti elettronici in genere, veniva inoltre sottoposto a verifica (e registrazione) il materiale in entrata e in uscita.
Pagato il nolo, Carol non giudicò un gran fastidio quello di dover riempire, su richiesta di Julianne, un modulo elencante il contenuto del baule, ma protestò vivamente quando l’incaricato della sicurezza, (un tipico poliziotto irlandese di Boston ritiratosi in pensione nella zona di Key West) le ordinò di aprire il collo per verifica. Né le sue proteste né l’intervento di Troy valsero tuttavia a qualcosa: il regolamento era il regolamento.
Il carretto era troppo grande per passare attraverso la porta dell’adiacente ufficio di sicurezza, e così il baule venne aperto nel salone sdoganamento della capitaneria. Mentre l’agente O’Rourke ne spuntava con meticolosità il contenuto sulla lista compilata da Carol, una coppia di curiosi comprendente un’affabile gigantessa di nome Ellen (una conoscenza di Troy, che Carol immaginò essere probabilmente una proprietaria di barca) si avvicinò per osservare.
Un po’ nervosa, Carol si avviò con Troy lungo il molo, tirando il carretto, verso la Florida Queen. L’aveva con se stessa per non aver previsto il controllo di sicurezza. Bel modo davvero di non attirare l’attenzione, il suo! Nick, intanto, terminati i pochi e consueti preparativi per la partenza, aveva aperto un’altra birra ed era tornato a immergersi nella partita di pallacanestro. La sua amata Harvard stava perdendo, sicché non udì il fischio di Troy se non quando questi e Carol furono a soli pochi metri.
«Gesù, credevo vi foste persi…» disse girandosi. Poi, alla vista del carretto col baule, rimase un istante senza parole. «E quello, che cazzo è?»
«L’equipaggiamento della signorina Dawson, professore» rispose con un gran sogghigno Troy. E, allungata una mano nel baule, cominciò con l’estrarre un cilindro dall’estremità in vetro trasparente — un grosso oggetto tipo torcia montato su forcella, lungo circa mezzo metro e pesante sui sei chili. «Questo, per esempio, sarebbe, secondo la signorina, un telescopio oceanico. Fissato sotto il fondo della barca per mezzo della forcella, riprende immagini che appaiono su questo monitor, e vengono quindi immagazzinate in quest’altro aggeggio, che è una specie di registratore che…»
«Alt, alt!» lo interruppe d’autorità Nick. «Ho capito bene?» disse, scuotendo la testa e guardando dall’uno all’altra, dopo aver risalito la passerella e dato un’occhiata incredula al baule. «Dovremmo montare tutte ’ste cazzate solo per un pomeriggio nel Golfo in cerca di balene? Ma si può sapere dove hai la testa, Jefferson?» esclamò, furente, rivolto a Troy. «Questa roba è pesante, richiederà tempo per il montaggio, e siamo già a mezzogiorno passato!
«In quanto a lei, sorella, si porti i suoi giocattoli e la sua mappa del tesoro da qualche altra parte. Sappiamo bene cosa cerca veramente, e abbiamo cose più importanti da fare.»
«Ha finito?» gli gridò dietro Carol. Nick, che stava ridiscendendo la passerella, si fermò e si voltò a metà. «Allora mi senta bene, testa di cazzo» continuò, sfogando tutta la frustrazione e la rabbia che le si erano andate accumulando dentro: «Lei ha certo il diritto di negarmi l’uso della sua barca, ma non quello di comportarsi da Dio onnipotente e di trattare me o chiunque altro da pezzo di merda solo perché sono una donna e a lei le gira di pigliarsela con qualcuno». Poi si mosse verso di lui, e Nick, dinnanzi a quell’offensiva, arretrò di un passo.
«Le ho detto che voglio andare in cerca di balene e questo è ciò che intendo fare, e non me ne frega niente che lei pensi che io sia in cerca d’altro. Riguardo alle cose importanti che avrebbe da fare, è un’ora che non si scolla da quella maledetta partita di pallacanestro se non per andare a prendere dell’altra birra. Dunque, se mi sta fuori dai piedi, in mezz’ora, fra Troy e me, tutta questa roba è sistemata. Anche perché c’è un piccolo particolare» continuò meno focosamente, cominciando a sentirsi un po’ imbarazzata per lo sfogo: «il nolo l’ho già pagato, e, come sa, annullare un pagamento con queste carte di credito computerizzate è un traffico che…»
«Che razza di donnino, eh, professore?» ghignò maliziosamente Troy, strizzando l’occhio a Carol. Poi, tornato serio: «Senti, Nick: il denaro ci serve, a tutt’e due. E io sarei felice di aiutarla. Se è per il bilanciamento, possiamo lasciare a terra quello che cresce degli attrezzi da immersione».
Nick tornò alla sdraio davanti al televisore, e, dopo un sorso di birra, disse, con qualche riluttanza e senza voltarsi: «E sia, procedete pure. Ma, se non siamo pronti a salpare per la una, non se ne fa niente». I giocatori di pallacanestro gli danzavano davanti agli occhi. Harvard aveva pareggiato di nuovo. Stavolta, però, lui non stava seguendo, ma riflettendo alla sparata di Carol. Mi domando se non abbia ragione. Se non sia vero che giudico le donne inferiori. O peggio.
5
Il capitano di fregata Vernon Winters riattaccò il ricevitore sentendosi tremare tutto. Era come se avesse visto un fantasma. Gettato nel cestino il torsolo di mela, si cercò in tasca una delle sue Pall Mall. Poi, senza rendersene conto, si alzò e andò alla grande portafinestra che dava sul cortile erboso della direzione amministrativa. Alla base aeronavale si era appena concluso l’intervallo del pranzo, e il viavai da e per la mensa di giovani dei due sessi era cessato. Sul prato era rimasto solo un giovane guardamarina, che leggeva un libro seduto contro un grande albero.
Il capitano Winters accese la sigaretta senza filtro e aspirò profondamente, poi espirò in fretta e tirò una nuova boccata. «Ehi, Indiana, sono Randy» aveva detto la voce due minuti prima. «Ti ricordi di me?» Come se fosse stato possibile dimenticare quella voce baritonalnasale… Subito dopo, senza attendere risposta, la voce si era materializzata sul monitor nel viso serissimo dell’ammiraglio Randolph Hilliard, seduto alla scrivania di un grande ufficio del Pentagono. «Bene,» aveva continuato «adesso possiamo vederci in faccia.»
Dopo un istante di silenzio, Hilliard si era chinato verso la telecamera. «Sono contento che Duckett abbia affidato a te questa faccenda del Panther. È una faccenda che potrebbe mettersi male; perciò bisogna scoprire, alla svelta e senza pubblicità, quel che è successo. Il Segretario di Stato e io contiamo su di te.»
Che cos’aveva risposto all’ammiraglio? Non riusciva a ricordare; però, doveva essersela cavata bene. Ma ricordava le ultime parole, ossia il suo annuncio che avrebbe richiamato per un resoconto dopo il rapporto del venerdì pomeriggio. Lui, Winters, quella voce non l’aveva più udita in quasi otto anni, ma il riconoscimento era stato istantaneo. E, a soli millisecondi di distanza, gli era affiorata la marea dei ricordi.
Dopo un’altra boccata, si staccò dalla portafinestra e prese a camminare lentamente per la stanza. Lo sguardo sfiorò, senza vedere, l’oggetto di maggior rilievo della parete: la deliziosa stampa, a morbidi colori, delle Due ragazze al piano di Renoir, il suo quadro preferito. Quell’ingrandimento speciale gli era stato donato dalla moglie e dal figlio per il suo quarantesimo compleanno, e, in circostanze normali, a lui accadeva più volte la settimana di soffermarsi davanti al quadro per ammirare la bella composizione. Ma due graziose giovinette intente alla lezione pomeridiana di piano non erano precisamente adatte alla situazione della giornata.