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Tornato a sedere alla scrivania, si prese il volto tra le mani. Ci risiamo, pensava intanto. Non posso più tenermela per me, dopo aver visto Randy e udito quella voce. Si guardò intorno, poi spense la sigaretta nel grosso portacenere davanti a sé. Per qualche istante giocherellò senza motivo con due piccole fotografie in cornice: una raffigurante un pallido dodicenne in compagnia di una donna poco più che quarantenne e d’aspetto insignificante, l’altra, datata Marzo 1993, il cast della Gatta sul tetto che scotta, data dalla compagnia dei Key West Players, con lui vestito di un completo estivo. Poi le posò e, allungatosi in poltrona, si abbandonò, a occhi chiusi, all’irresistibile richiamo dei ricordi. Come a un interiore levar di sipario, si senti trasportare a una limpida e calda notte di circa otto anni addietro, ai primi d’aprile del 1986. E il primo rumore che udì fu la concitata voce nasale del tenente di vascello Randolph Hilliard.

«Psst, Indiana, sveglia! Come fai a dormire? Sono Randy. Dobbiamo parlare. Sono così agitato che quasi me la faccio addosso.» Lui, Winters, che dormiva solo da circa un’ora dopo aver a sua volta faticato a prender sonno, guardò inconsapevolmente l’orologio. Quasi le due — e l’amico, in piedi accanto alla cuccetta, gli sorrideva con tutta la faccia. «Ancora tre ore sole, e attacchiamo. E quel folle di un arabo finanziaterroristi si ritroverà in cielo con Allah. Cazzo, vecchio mio, è il nostro momento: quello per cui abbiamo lavorato tutta la vita!»

Winters scosse la testa e cominciò a snebbiarsi dal sonno. Gli ci volle un momento per ricordare che stava a bordo dell’USS Nimitz, al largo della costa libica, e che stava per affrontare la prima azione della sua carriera militare. «Senti, Randy» finì per dire (quella notte di quasi otto anni addietro) «ma non sarebbe meglio dormire? E se domani fossero i libici ad attaccarci? Bisognerà essere ben svegli, non ti pare?»

«Ma che cazzo dici…» rispose l’amico e collega, aiutandolo a tirarsi su a sedere e porgendogli una sigaretta. «Quei culattoni lì non attaccheranno mai un avversario capace di battersi. Sono terroristi: sanno solo combattere contro la gente inerme. L’unico di loro che abbia un po’ di fegato è quel colonnello Gheddafi, che però è suonato come una campana. Così, una volta che l’avremo fatto saltare nel regno dei cieli, la battaglia sarà finita. E, in quanto a dormire, ho tanta adrenalina nel sangue che potrei star sveglio trentasei ore come niente.»

Winters sentì la nicotina scorrergli per il corpo e ridestargli la brama d’azione che, un’ora prima, era finalmente riuscito a calmare di quel tanto che gli era bastato per prender sonno. Randy stava parlando a ruota libera. «Abbiamo avuto un culo da non credere! Per sei anni mi sono chiesto come può un ufficiale segnalarsi, distinguersi, in tempo di pace. E adesso ci siamo. Un matto piazza una bomba in un club di Berlino, e il caso vuole che proprio noi siamo di servizio nel Mediterraneo. Questo si chiama essere nel posto giusto al momento giusto! Cazzo: ma te l’immagini quanti allievi del nostro corso darebbero la palla destra pur di stare al posto nostro? Domani ammazziamo quel matto, e saremo avviati a diventare capitani, o magari addirittura ammiragli, nel giro di cinque-otto anni!»

Pur non condividendo il modo di vedere dell’amico, secondo il quale uno dei vantaggi dell’incursione contro Gheddafi sarebbe consistita in un avanzamento di carriera per entrambi, Winters non aprì bocca. Da qualche minuto era immerso in una profonda riflessione personale. Come mai si sentiva anche luì così agitato? Non capiva bene. Era un’agitazione simile a quella provata prima dei quarti di finale universitari di pallacanestro… E chissà quanto sarebbe cresciuta con la paura, se davvero le forze americane si stavano preparando alla battaglia…

Del resto l’addestramento di preattacco durava già da quasi una settimana, ma era normale procedura della Marina quella di svolgere i preparativi di combattimento fino all’ultimo e di sospenderli quindi circa un giorno prima della prevista ora zero. Stavolta, però, le cose erano andate diversamente sin dal principio. Hilliard e Winters non avevano tardato ad accorgersi di come gli ufficiali superiori mettessero in tutto una serietà mai vista. Nessuna tolleranza per scherzi o battute, stavolta, durante i lunghi e barbosi controlli di aerei, missili e cannoni. La Nimitz, insomma si preparava alla guerra. E il giorno prima, quando l’uso avrebbe voluto la sospensione dei preparativi, il comandante aveva chiamato tutti gli ufficiali a rapporto per annunciar loro di aver ricevuto l’ordine d’attacco per l’indomani all’alba, e spiegato la portata dell’azione americana contro la Libia. A questo, Winters aveva provato un tuffo al cuore.

Il suo ultimo compito, subito dopo cena, era stato un ennesimo ripasso, insieme coi piloti, degli obiettivi da bombardare. Due aerei sarebbero stati inviati, separatamente, a bombardare la residenza in cui si supponeva dormisse Gheddafi. Uno dei due piloti scelti per la missione s’era mostrato fuori di sé dalla gioia per aver avuto in sorte l’obiettivo principale del raid. L’altro, il tenente Gibson, originario dell’Oregon, aveva proceduto ai preparativi con tranquilla meticolosità, studiando la carta con lui, Winters, e ripassando le postazioni antiaeree libiche. S’era lamentato d’una cosa sola: di avere la bocca secca; e aveva bevuto diversi bicchieri d’acqua.

«Cazzo, Indiana, sai cosa mi preoccupa? Che ’sti piloti saranno in battaglia e noi invece piantati qui a non fare un tubo, se quei matti di arabi non ci attaccano. Allora, come si fa per andarci anche noi, in combattimento? Aspetta: mi è venuta un’idea.» Il tenente Hilliard continuava a parlare a ruota libera. Erano le tre passate, avevano esaminato almeno due volte ogni minimo aspetto dell’attacco, e Winters si sentiva stremato dalla mancanza di sonno, ma il suo stupefacente amico seguitava a trasudare esuberanza.

«Grande idea» continuò Randy, parlando a se stesso. «E, sì, si può fare. I piloti li hai istruiti tu, no?, e dunque saprai chi è destinato a quale bersaglio.» Vernon assentì. «Allora è fatta. Attaccheremo un nostro personale “vaffanculo” al missile destinato a Gheddafi: così una parte di noi parteciperà al combattimento.»

Vernon non si sentì la forza di dissuadere l’amico dallo stralampato proposito. Così, quando si avvicinò l’ora dell’attacco, si recò con lui nell’hangar della Nimitz e trovò l’aereo assegnato al tenente Gibson (senza sapere perché, lui aveva dato subito per scontato che sarebbe stato Gibson a centrare con un missile l’enclave di Gheddafi). Randy spiegò ridendo al giovane guardiamarina di servizio quali fossero le loro intenzioni.

C’era voluta quasi mezz’ora per localizzare l’aereo giusto e per identificare quindi il missile destinato a venir lanciato per primo contro la casa di Gheddafi. Poi i due tenenti avevano discusso per un’altra decina di minuti che cosa scrivere sul pezzo di carta da incollare al missile. Winters avrebbe voluto qualcosa di profondo, quasi di filosofico, del tipo «Questa è la giusta fine della tirannia del terrorismo». Hilliard aveva sostenuto, in maniera convincente, che un concetto del genere era troppo oscuro. Così, uno stanco Winters aveva finito per accettare il messaggio viscerale del collega che diceva: «CREPA, BASTARDO».

Winters era quindi tornato, esausto, alla sua cuccetta. Stanco e ancora scombussolato dall’entità degli eventi che stavano per accadere, tirò fuori la Bibbia per leggere qualche versetto. Ma il Libro non aveva parole di conforto per il presbiteriano dell’Indiana. Provò allora a pregare: preghiere generiche, dapprima, poi sempre più specifiche, com’era stato sempre suo costume nei momenti critici della vita. Chiese al Signore di proteggere sua moglie e suo figlio, e di stargli accanto in quel momento di travaglio. Poi, d’un tratto, senza riflettere, lo pregò di rovesciare il terrore sul colonnello Gheddafi e su tutta la sua famiglia sotto forma di missile. Di quel missile col messàggio incollato sopra.