Otto anni più tardi, seduto nel suo ufficio della base aeronavale di Key West, il capitano di fregata Winters avrebbe ricordato quella preghiera con una stretta al cuore. Già nell’86, del resto, a preghiera appena terminata, s’era sentito stranamente disorientato, come se avesse proferito un’empietà e dato un dispiacere al Signore. La breve ora di sonno che le era seguita era stata una tortura: un orrendo incubo popolato di gargolle e vampiri. All’alba aveva assistito, come in stato di trance, alla partenza degli aerei, la bocca impastata di un amaro sapore metallico nel momento di stringere meccanicamente la mano a Gibson e di augurargli buona fortuna.
In tutti quegli anni, non aveva fatto che dirsi: “Ah, se si potesse fare che non avessi mai detto quella preghiera!”. Dio, infatti, aveva permesso a quel determinato missile portato da Gibson di togliere la vita alla figlioletta di Gheddafi proprio per impartire a lui, Winters, una lezione. Di questo, era convinto. Quel giorno, pensava quel giovedì di marzo del 1994, seduto nel suo ufficio, ho commesso sacrilegio e violato la tua fiducia. Ho valicato i limiti dell’umanamente lecito e perduto la mia posizione privilegiata nel tuo santuario. Da allora, ho chiesto più volte perdono, ma il perdono tarda ancora a venire. Quanto dovrò aspettare ancora?
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Vernon Allen Winters era nato il 25 giugno 1950, il giorno dell’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord. Il significato di tale data di nascita gli sarebbe stato ricordato per tutta la vita dal padre, Martin Winters, uomo profondamente religioso e amante del lavoro che, all’epoca dell’evento, faceva il coltivatore di grano nell’Indiana. La famiglia aveva lasciato la fattoria per Columbus, una città bianca, di classe media, sui trentamila abitanti, fra il centro e il sud dell’Indiana, quando Vernon aveva tre anni e sua sorella Linda sei. La madre di Vernon si sentiva isolata, là in mezzo alla campagna, e tanto più d’inverno, e aveva voluto un po’ più di compagnia. La vendita della fattoria aveva fruttato un buon gruzzolo, e in denaro contante. Il signor Winters, ormai vicino alla quarantina, ne aveva messo da parte il grosso per il giorno di vacche magre ed era entrato in banca.
Martin Winters era fiero di essere americano. Tutte le volte che raccontava a Vernon del suo giorno natale, la storia s’incentrava inevitabilmente sulla notizia dello scoppio della guerra di Corea e sul modo in cui tale guerra era stata presentata alla nazione dal presidente Harry Truman. «Quel giorno ho pensato che, di sicuro, non poteva essere una coincidenza» era solito dire il signor Winters. «Se il Signore nella Sua bontà ti aveva portato a noi proprio quel giorno, doveva essere perché Egli aveva uno scopo per te. E scommetto che lo scopo era quello che tu fossi un protettore del meraviglioso Paese da noi creato…» Più tardi, il banchiere Winters avrebbe sempre fatto in modo che la partita di football Esercito-Marina fosse uno degli eventi chiave dell’anno, e detto agli amici, soprattutto una volta divenuto chiaro che il giovane Vernon prometteva bene come studente, che «il ragazzo era sempre incerto su quale accademia frequentare». Ma, a Vernon, il suo parere non era mai stato chiesto.
La famiglia Winters conduceva una vita semplice da Middlewest. Il signor Winters, uomo di moderato successo, finì per diventare il vicepresidente anziano della massima banca di Columbus. L’attività sociale primaria della famiglia era la chiesa, dove la famiglia, presbiteriana, passava quasi per intero le giornate di domenica. La signora Winters dirigeva la scuola domenicale di catechismo, mentre il signor Winters, diacono, amministrava volontariamente le finanze della chiesa. Vernon e Linda collaboravano alla sorveglianza dei frequentatori più piccoli della scuola domenicale, e si occupavano dei cartelloni di argomento biblico da affiggere alle bacheche degli asili e nelle aule delle scuole elementari.
Alle superiori, Vernon praticava tutti gli sport: football e pallacanestro perché vi era tenuto, baseball perché gli piaceva. In tutti era sopra la media, ma non eccelleva in nessuno. «Le attività pratiche sono importanti, specialmente le sportive» gli diceva spesso, in tono approvatore, il banchiere Winters. «Le accademie, infatti, cercano qualcosa di più dei semplici voti.» L’unica decisione di rilievo che a Vernon toccò prendere nei primi diciott’anni di vita fu quella riguardante la scelta dell’accademia militare cui iscriversi. (Da uomo prudente, il signor Winters era pronto a muovere certe pedine politiche per assicurargli l’ingresso in una qualsiasi delle tre, e lo invitò a presentare comunque domanda a tutt’e tre, perché non si sapeva mai.) Al terz’anno di corso del liceo di Columbus, Vernon si sottopose al Test Attitudinale Scolastico (TAS), e lo superò con voti tanto alti, da mettersi chiaramente in grado di scegliere l’accademia preferita. Scelse Annapolis, e nessuno gliene chiese il perché. Gli fosse stato chiesto, avrebbe semplicemente risposto che si vedeva bene in divisa da marinaio.
L’adolescenza di Vernon fu singolarmente lineare, soprattutto considerando che si svolse in un periodo di grandi sconvolgimenti sociali per gli Stati Uniti. La famiglia Winters pregò riunita per ore dopo l’assassinio di Kennedy, si preoccupò dei ragazzi locali mandati in Vietnam a fare la guerra, assisté con turbamento all’espulsione del liceo di tre maturandi di spicco colpevoli di aver rifiutato di tagliarsi i capelli, e presenziò a un paio di riunioni organizzate dalla chiesa sui mali della marijuana, ma non lasciò che tutti questi motivi di preoccupazione venissero a turbare la sua quotidiana armonia. La musica dei Beatles e dei Rolling Stones penetrò, va da sé, anche la sua pur controllata cultura, e sullo stereo di Vernon risuonarono addirittura alcune delle canzoni di protesta di Bob Dylan e Joan Baez, ma il loro contenuto verbale non interessava granché né a Vernon né a sua sorella Linda.
Un’esistenza facile e tranquilla, insomma. Gli amici intimi di Vernon provenivano tutti da famiglie come la sua: madri casalinghe, padri bancari, avvocati o uomini d’affari, quasi tutti Repubblicani (o, se Democratici, d’animo patriottico, il che era egualmente accettabile) e fervidi credenti in Dio, nella Patria, e nell’intera litania delle cose terminanti in -io o in -ia. «Bravo ragazzo» anzi «ragazzo fuori del comune.» Vernon cominciò a segnalarsi con le sue recite nelle sacre rappresentazioni date dalla chiesa ogni Natale e Pasqua. Il pastore, il reverendo Pendleton, credeva fermamente che la rappresentazione di Natività e Crocifissione, coi bambini della città per attori, fosse un modo vigoroso per riaffermare la fede della cittadinanza. E aveva ragione: gli spettacoli in costume della Chiesa presbiteriana di Columbus erano uno degli eventi maggiori dell’anno. Quando i membri della chiesa e i loro amici vedevano i propri bambini nei panni di Giuseppe, Maria e dello stesso Gesù, la loro partecipazione agli episodi rappresentati raggiungeva un grado di coinvolgimento emotivo, quale mai avrebbe raggiunto in altro modo.
Il reverendo Pendleton aveva due gruppi di attori per ciascuna rappresentazione, così da favorire la partecipazione di un maggior numero di bambini, ma la stella era sempre Vernon. A undici anni, Vernon interpretò il suo primo Cristo nella rappresentazione pasquale, e la sezione Religione del giornale di Columbus scrisse che lo strazio con cui egli aveva trascinato la croce aveva «espresso tutta la sofferenza umana». Per quattro anni di seguito fu quindi Giuseppe a Natale e Gesù a Pasqua, dopodiché non ebbe più l’età per partecipare alle rappresentazioni. Negli ultimi due anni, ossia nel suo tredicesimo e quattordicesimo anno di vita, la parte della vergine Maria nel gruppo “A” venne recitata da Betty, la figlia del pastore. Durante le prove, i due ragazzi erano spesso insieme, e ciò riempiva di gioia entrambe le famiglie, le quali non facevano mistero di augurarsi che, «a Dio piacendo», la loro amicizia maturasse in qualcosa di più permanente.