L’allievo Vernon Winters mantenne la parola. Non solo non parlò mai più a Joanna Carr (che, dopo aver telefonato due volte senza riuscire a trovarlo e mandato due lettere rimaste senza risposta, decise di lasciar perdere), ma, nei diciotto mesi finali di Accademia, smise del tutto di uscire con ragazze, si applicò con ogni energia agli studi e frequentò la cappella, come promesso a Dio, due volte la settimana.
Laureatosi con lode, prestò il suo primo servizio su una grande portaerei. Due anni più tardi, nel giugno 1974, sposò Betty Pendleton, diplomatasi maestra, nella chiesa presbiteriana di Columbus, nella quale, dodici anni addietro, erano stati lui Giuseppe e lei Maria. La coppia si stabilì a Norfolk, in Virginia, e Vernon pensò di aver davanti ormai una vita ben precisa: lunghi periodi in mare e brevi soggiorni a casa con Betty e i bambini che avrebbe avuto.
Non dimentico di ringraziare regolarmente Dio per aver mantenuto la Sua parte di contratto, Vernon si applicò a diventare il miglior ufficiale della Marina USA. Gli aggiornamenti del suo stato matricolare ne vantavano affidabilità e meticolosità, e i suoi ufficiali comandanti gli dicevano apertamente che possedeva la stoffa dell’ammiraglio. Questo, fino alla Libia. O, più specificamente, fino al suo ritorno dall’azione in quel paese. Poiché, nelle poche settimane successive all’attacco americano a Gheddafi, il mondo, per lui, cambiò da così a così.
7
Carol e Troy sedevano sul ponte di prua della Florida Queen, e guardavano davanti, all’oceano e al caldo sole pomeridiano. Carol si era tolta la casacca porpora e mostrava il busto di un costume da bagno monopezzo, ma aveva conservato i pantaloni bianchi di cotone. Troy, senza camicia, portava un costume bianco da surf, molto basso sulle belle gambe nere, su un corpo asciutto e vigoroso, atletico ma non pacchianamente muscoloso. I due parlavano animatamente del più e del meno, con frequenti quanto spontanee risate. Alle loro spalle, sotto il tendaletto, Nick Williams leggeva A Fan’s Notes di Fred Exley, da cui staccava ogni tanto gli occhi per osservarli.
«Ma come mai non sei poi andato all’università?» stava chiedendo Carol a Troy. «Con le capacità che chiaramente hai, saresti diventato un mostro d’ingegnere.»
Troy si alzò e, togliendosi gli occhiali da sole, andò al parapetto. «È quello che diceva anche mio fratello Jamie» rispose quindi lentamente, contemplando la tranquillità dell’oceano. «Ma io ero troppo scapestrato per dargli retta. Così, una volta diplomato, ho avuto una sola voglia: quella di conoscere com’è fatto il mondo. Allora ho preso su, e, per un paio d’anni, ho girato Stati Uniti e Canada.»
«Ed è così che hai imparato l’elettronica?» domandò Carol, dando nel contempo un’occhiata all’orologio.
«No, questo è venuto dopo, molto dopo» rispose Troy, ricordando. «In quei due anni di vagabondaggio non ho imparato altro se non il modo di cavarmela usando cervello. E un’altra cosa: che cosa significa essere neri in un mondo di bianchi.» Dopo un’occhiata a Carol, che non gli rivelò reazioni particolari, continuò, tornando a guardare l’oceano:
«Avrò fatto un centinaio di lavori: cuoco, fattorino di giornale, barista, operaio edile. Ho insegnato nuoto in un circolo privato; sono stato fattorino in un albergo di stazione turistica, custode di campo di golf di un circolo sportivo…» Ridendo, si girò per vedere se Carol stava ascoltandolo. «Ma immagino che tutto questo non t’interessi…»
«M’interessa altroché,» disse Carol «anzi, mi affascina addirittura. Sto sforzandomi di immaginare il tuo aspetto in divisa da albergo. E, stando a Capo Nick, abbiamo ancora dieci minuti prima del punto dove siamo diretti.» Poi, abbassando il tono: «Tu, almeno, parli. Il professore, invece, non sembra precisamente un tipo socievole».
«Fare il fattorino nero di un albergo turistico del Mississippi meridionale è stata un’esperienza incredibilmente istruttiva» riprese Troy, il viso aperto in un sorriso (raccontare storie della sua vita gli piaceva, perché lo poneva sempre al centro della scena). «Immagina un po’, angelo: diciott’anni, e mi capita la fortuna di un lavoro al grande e vetusto Gulfport Inn, proprio sulla spiaggia. Vitto e alloggio più le mance: il massimo, insomma! Sennonché, il fattorino-capo, un ometto impossibile di nome Fish, mi porta alla caserma alloggio dei fattorini e del personale di cucina e mi presenta a tutti come il “nuovo galoppino negro”. E, a quanto riesco ad afferrare dalla conversazione, capisco che il motivo della mia assunzione è il tentativo dell’albergo di rimediare in parte a certi suoi guai; guai che gli derivano da una sospetta discriminazione razziale.
«La mia stanza era proprio dietro la dodicesima buca del campo di golf. Lettino a castello, armadio a muro, tavolino-scrittoio con relativa lampada, lavabo per lavarsi denti e faccia: questa la mia residenza per un mese e mezzo. All’altro capo della caserma alloggio c’era il grande bagno comune, abbandonato da tutti a ogni mia comparsa.
«Nel mio liceo di Miami, il corpo studentesco era in pratica tutto cubano, o nero, o l’uno e l’altro, sicché, dei bianchi, io non sapevo quasi niente. Dai libri e dalla televisione me ne facevo un’immagine di fantasia, e li vedevo belli, bravi, istruiti, e ricchi. E già… Ma questa immagine è svanita in fretta. Sapessi che razza di gente lavorava in quell’albergo! Roba da non credere. Il fattorino-capo Fish fumava roba tutte le sere in compagnia del figlio sedicenne Danny, e sognava il giorno in cui avrebbe trovato un milione di dollari dimenticato in una camera. E il suo unico altro scopo nella vita era quello di continuare a scoparsi, ogni mattina e fino alla morte, la moglie dello chef, Marie, nella dispensa!
«Uno degli altri fattorini era un povero cristo che si chiamava Saint di nome e John di cognome, perché i suoi genitori, nel loro acume, credevano che “Saint” fosse per l’appunto un nome proprio. Saint John aveva solo sei denti, portava occhiali spessi, e aveva un’enorme ciste sotto l’occhio sinistro. Sapendosi brutto, viveva nella paura costante di perdere il posto per via dell’aspetto; e, così, Fish lo sfruttava spietatamente, assegnandogli i compiti più merdosi e costringendolo a sganciargli una percentuale sulle mance, e gli altri fattorini non perdevano occasione per ridicolizzarlo e fargli scherzi di ogni genere.
«Una sera che sedevo tranquillo in camera mia a leggere un libro, sento un lieve bussare alla porta. Apro, e mi trovo davanti Saint John, che, con l’aria confusa e perplessa, è lì con una piccola scatola da gioco in una mano e una confezione da sei lattine di birra nell’altra. Lascio passare qualche istante, poi gli chiedo che cosa vuole. Lui guarda nervosamente di qua e di là, poi mi domanda se so giocare a scacchi. Quando gli dico di si e che mi andrebbe anche di fare una partita, lui si apre in un gran sorriso e borbotta qualcosa tipo: sono contento di aver osato. Io l’ho invitato a entrare, e abbiamo passato quasi due ore a giocare, parlare e bere birra. Lui era uno di nove figli di una povera famiglia di campagna del Mississippi. Mentre giocavamo, si è lasciato sfuggire di aver esitato a chiedermi di giocare perché Fish e Miller gli avevano detto che i negri erano troppo ottusi per giocare a scacchi.
«Durante le mie ultime settimane di permanenza, Saint John e io siamo diventati più o meno amici. Eravamo uniti dal più profondo dei vincoli: la comune qualifica di esclusi dalla curiosa struttura sociale creata dal personale del Gulfport Inn. Da Saint John ho imparato molto, fra l’altro, sui vari pregiudizi dei bianchi del Sud nei confronti dei neri. Una sera, pensa,» continuò Troy ridendo «ha addirittura voluto seguirmi in bagno per accertare coi suoi occhi se ero o no proporzionalmente più fornito di lui!»