Nick e Carol rimasero a fulminarsi con lo sguardo per qualche istante. Poi Troy decise di mettersi in mezzo. «Senti, professore… e anche tu, angelo… lo non pretendo di capire perché voi due insistiate nel mandarvi a quel paese a vicenda; però, a me, questa cosa mi rompe parecchio. Non potreste calmarvi un tantino? In fin dei conti,» continuò, guardando prima Nick e poi Carol «se vi immergete insieme, sarete compagni, e la vita dell’uno può dipendere da quella dell’altro. Dunque, piantatela, via…»
Carol si strinse nelle spalle e accennò di sì. «Per me, va bene» disse. Poi, non vedendo risposta da Nick, non seppe resistere a un’altra frecciata. «A patto che il signor Williams riconosca la sua responsabilità di sub professionista e conservi la sobrietà necessaria per potersi immergere.»
Dopo un’occhiataccia furibonda, Nick andò al parapetto e, con gesto teatrale, vuotò nell’oceano la birra appena tolta dal frigorifero. «Non si preoccupi per me, dolcezza,» disse con un sorriso sforzato «so badare a me stesso. Si preoccupi piuttosto di quello che fa lei…»
Il microprocessore del telescopio oceanico conteneva uno speciale sottoprogramma d’allarme che squillava a mo’ di telefono al verificarsi di determinate e previste circostanze d’allarme. Su richiesta di Carol, e poco prima della sua partenza per Key West, Dale Michaels aveva regolato personalmente il normale algoritmo d’allarme in modo da farlo reagire sia all’entrata nel suo campo visivo di una grossa creatura, sia alla presenza di un oggetto “stazionario” ignoto d’una certa mole. Terminato il disegno logico della piccola regolazione e inviatolo alla sezione Componentistica per codifica e prova con priorità assoluta, Dale aveva sorriso tra sé. La complicità con Carol lo divertiva, e questo suo sotterfugio tecnologico avrebbe certamente convinto i compagni di lei, quali che fossero, che la ricerca delle balene era il vero scopo della sua uscita in mare. Allo stesso tempo, l’allarme avrebbe suonato anche nel caso fosse apparso, sul fondo oceanico al di sotto della barca, ciò che Carol stava in realtà cercando: un missile errabondo (e segreto) della Marina in fase sperimentale.
La struttura fondamentale dei due algoritmi d’allarme era di facile comprensione. Per l’identificazione di un animale in movimento bastava sovrapporre due o tre immagini prese in meno di un secondo d’intervallo (su qualunque lunghezza d’onda, sebbene la maggior precisione fosse quella offerta dalle immagini visive, più definite) e comparare i dati sulla base della scena osservata, che doveva conservarsi in gran parte identica in tutte e tre. Diversità significative — differenze nella sovrapposizione di immagine a immagine tra spazi contigui — erano il segnale della presenza di una grossa creatura in movimento.
Per l’identificazione di oggetti estranei entrati nel campo visivo, l’algoritmo d’allarme si valeva dell’immensa capacità d’immagazzinamento dell’unità di memoria del sistema elaborazione dati del telescopio. Immesse nella memoria, le immagini visiva e infrarossa, riprese quasi simultaneamente, venivano analizzate all’ingrosso sulla base di una serie di dati contenenti catene di parametri di riconoscimento-struttura e su entrambi i campi di lunghezza d’onda. I parametri di riconoscimento, sviluppati in anni di minuziose ricerche, erano stati di recente espansi dall’IOM, e abbracciavano ora in pratica ogni oggetto normale (piante, animali, strutture di scogliere ecc.) che avesse la probabilità di venir avvistato sul fondo oceanico circostante le Key della Florida.
Grazie agli allarmi, non era necessario sedere pazientemente davanti allo schermo per studiare le migliaia di quadri-dati nel momento stesso in cui venivano ricevuti dall’apparecchio. Troy stesso, benché “drogato dal sapere”, come si autodefiniva per via del suo quasi insaziabile interesse per ogni cosa, dopo una decina di minuti si stancò di stare a fissare il monitor, anche perché, nel frattempo, la barca era entrata in acque più profonde e le immagini visive non permettevano di scorgere granché.
Una ventina di minuti dopo l’attivazione del telescopio, un paio di squali solitari fece scattare gli allarmi, provocando una momentanea animazione, ma ad essa seguì un lungo periodo senza avvistamenti. Con l’approssimarsi della sera, Nick si mostrò sempre più spazientito. «Non so proprio perché mi sia lasciato trascinare in questa impresa senza senso» borbottò come fra sé. «E dire che avremmo potuto occupare il tempo a preparare la barca per il noleggio di fine settimana…»
Carol ignorò il commento e riprese a studiare la carta per l’ennesima volta. Avevano attraversato da sud a nord la regione circoscritta da lei e Dale, e al momento procedevano lentamente a est lungo la periferia settentrionale. Circoscritta da Dale sulla base di quanto egli aveva personalmente dedotto dalle domande postegli dalla Marina, la zona delle ricerche era alquanto vasta. Per ridurla, avrebbe dovuto porre domande dirette, cosa che aveva evitato di fare per non destare sospetti.
Carol si rendeva conto che la ricerca somigliava a quella del proverbiale ago nel pagliaio, ma vi ci si era accinta ugualmente al pensiero della sua potenziale resa. Che colpo giornalistico, se fosse riuscita a trovare e fotografare un missile segreto della Marina caduto nei pressi di una zona abitata! Ora, però, cominciava a spazientirsi un po’ anche lei, e l’eccitazione iniziale era ormai un ricordo dopo il lungo pomeriggio di sole. Fra poco avrebbero dovuto mettere la prua su Key West, se volevano rientrare prima di notte. Oh, be’, pensò rassegnata, se non altro, ci ho provato. E, come diceva mio padre, chi non risica, non rosica.
Dal parapetto di prua, dove stava, udì a un tratto risuonare squilli d’allarme nell’unità di memoria accanto al monitor. Uno squillo, poi due, seguiti da un breve silenzio. Un terzo squillo e, subito dopo, un quarto. Si precipitò allora verso il monitor, gridando imperiosamente a Nick: «Ferma la barca!». Ma arrivò troppo tardi: gli allarmi avevano ormai smesso di squillare e sullo schermo non si vedeva niente.
«Gira intorno, gira intorno!» gridò immediatamente, non notando, nel nervosismo della delusione, l’occhiataccia furibonda di Nick.
«Agli ordini, capitano» disse Nick, imprimendo un tale scatto alla ruota del timone, da far perdere l’equilibrio a lei e da far sgusciare monitor e apparecchiatura elettronica dalle loro precarie sedi sopra il baule (fortunatamente, Troy salvò il tutto all’ultimo momento). La Florida Queen virò di brutto; così, malgrado la calma dell’oceano, una piccola onda superò il parapetto della parte bassa del ponte e investì Carol dai ginocchi in giù, incollandole i pantaloni di cotone ai polpacci e infradiciandole calze e scarpe bianche da tennis.
All’aria di franca soddisfazione di Nick, Carol stava già per rispondere da par suo, quando squillarono di nuovo gli allarmi. Riguadagnato l’equilibrio al drizzarsi della barca, vide sul monitor una barriera corallina: e, molto al di sotto della barca a stento discernibili sullo schermo, tre balene della medesima specie da lei vista quella mattina sulla spiaggia di Deer Key. Tre balene che nuotavano insieme come se non avessero una rotta definita. E c’era di più: l’allarme speciale in codice indicava la presenza, nello stesso campo visivo delle balene errabonde o nelle sue vicinanze, di un oggetto estraneo.
Carol batté le mani, incapace di frenare la propria emozione. «Ancora, per favore!» gridò, esplodendo in una risata quando constatò che Troy l’aveva già lanciata fuoribordo.