Pochi minuti dopo, a poppavia del tendaletto, Carol s’infilava in fretta la tuta da sub. Maschera e pinne le erano accanto, pronte, sul piancito. Troy la aiutò reggendole la bombola d’ossigeno, incassata nella voluminosa tuta. «Non preoccuparti di Nick» disse Troy. «Oggi sarà anche incazzato per qualche ragione, magari per via che Harvard le ha prese a pallacanestro, ma è un sub favoloso. E ha fama di essere il miglior istruttore sub delle Key. Dopo tutto,» continuò sorridendo «ha insegnato perfino a me, un paio di mesi fa, e io sono di una razza che teoricamente non dovrebbe nemmeno saper nuotare…»
Carol gli sorrise, scuotendo la testa. «Ma non la smetti mai di scherzare?» disse. Poi infilò il braccio libero nella seconda apertura e la tuta le fu addosso. «Fra parentesi,» continuò a voce bassa «per essere un sub esperto, il tuo amico usa un equipaggiamento decisamente antiquato.» In quel momento rimpiangeva di aver lasciato la sua tuta su misura nella giardinetta. Era quella che usava sempre nelle immersioni con Dale, ed era munita di tutte le innovazioni più recenti, tipo l’ABC (Compensazione automatica di galleggiamento) e una tasca perfetta per la macchina fotografica subacqua. Ma, dopo tutto il trambusto che già aveva causato col suo baule di apparecchiature elettroniche, aveva deciso che una tuta da immersione ultimo modello avrebbe finito coll’attirare ancor più l’attenzione.
«Nick pensa che le nuove tute facilitino troppo le cose per il sub. Lui vuole che chi s’immerge regoli da sé, manualmente, il galleggiamento, così da rendersi meglio conto della profondità raggiunta.» Poi, squadrandola per bene, continuò: «Sei abbastanza leggera, e la cintura dovrebbe bastare da sola. Adoperi pesi, di solito?».
Carol fece di no col capo e si strinse la cintura in vita. A questo punto arrivò Nick, tuta con bombola e cintura coi pesi già indossate, maschera e pinne in mano. «Quelle sue balene stanno sempre nello stesso punto» disse. «Mai viste delle balene ciondolare a ’sto modo…» Le porse un pezzo di tabacco da masticare, con cui lei strofinò l’interno della maschera a scopo antiappannante, e le girò dietro per controllare manometro dell’aria e regolatore, e per verificare il boccaglio secondario che avrebbe dovuto usare per passarle ossigeno in caso di emergenza.
Nell’effettuare gli ultimi controlli, le parlò.
«La barca l’ha noleggiata lei,» esordì, in un tono che poteva passare per gentile «perciò, finché saremo giù, potremo andare più o meno dove le pare. E siccome abbiamo una profondità di circa quattordici metri, sarà un’immersione non troppo difficile. Però una cosa deve essere chiara,» continuò, passandole davanti per fissarla negli occhi «la barca è mia, e mia è dunque la responsabilità della sicurezza di chi ci sta sopra — lei compresa, le piaccia o no. Prima che ci immergiamo, desidero quindi essere certo che, una volta sott’acqua, seguirà le mie istruzioni.»
Carol si rese conto che lui stava sforzandosi di presentarle la cosa con diplomazia. Per un istante, anzi, le balenò che non era niente male, visto così, in tuta subacquea… Decise perciò di mostrarsi magnanima. «D’accordo» rispose. «Ma ho anch’io una cosa da dire prima che scendiamo. Sono una giornalista e mi porto dietro una macchina fotografica e quindi può succedere che le chieda di spostarsi, ogni tanto. Perciò, non se la prenda se le farò segno di sgombrare il campo.»
«Va bene» sorrise Nick. «Vedrò di ricordarlo.»
Carol si infilò pinne e maschera, poi si buttò dietro il collo e le spalle la cinghia della macchina fotografica subacquea, che Troy la aiutò a fissare sulla schiena. Nick sedeva vicino a un’apertura del parapetto di fiancata, di dove Troy aveva poco prima calato una rozza scala. «Ho controllato l’acqua,» disse «e c’è una gran corrente. Sarà dunque bene scendere fin sul fondo lungo il cavo dell’àncora, e scegliere la direzione una volta giù.»
Detto questo, rotolò all’indietro fuoribordo, riemergendo subito dopo tutto gocciolante. Carol gli restituì il segnale di pollice ritto (il “tutto bene” dei sub) e sedette a sua volta sulla fiancata. Troy la aiutò a dare un’ultima aggiustata alla tuta. «Buona fortuna, angelo» le disse. «Ti auguro di trovare quello che cerchi. E fa’ attenzione mi raccomando!»
Carol s’infilò in bocca il regolatore, aspirò, ed eseguì la stessa manovra di Nick. L’acqua dell’oceano le rinfrescò la schiena cotta dal sole. In pochi secondi raggiunse Nick al cavo dell’àncora, e ripeté il segnale di pollice ritto in risposta al suo. Poi Nick guidò la discesa, scivolando cauto mano dopo mano e senza mai abbandonare del tutto il cavo. Carol lo seguì con pari cautela. Ora sentiva la forte corrente annunciata da lui: una corrente che tentava di strapparla dal cavo, ma alla quale seppe resistere. Ogni due, due metri e mezzo, Nick si arrestava per bilanciare la pressione auricolare, volgeva la testa in su per assicurarsi che lei lo seguisse e che tutto procedesse bene, poi riprendeva la discesa.
Finché non raggiunsero la barriera corallina, non trovarono granché da vedere. Le immagini del telescopio erano state tanto nette da dare una falsa idea della distanza. La focalizzazione automatica del sistema ottico aveva fatto sembrare che la barriera, con la sua profusione di colori e la sua varietà di vita vegetale e animale, fosse immediatamente al di sotto della barca. Ma undici metri di profondità erano tanti; sicché, anche se sul fondo vi fosse stato un normale edificio a due piani, questo non sarebbe arrivato nemmeno a sfiorare la chiglia della Florida Queen.
Quando ebbero finalmente raggiunto la cima della barriera, nella quale s’era fissata l’àncora, Carol si rese conto di aver commesso un errore. Non riconosceva l’ambiente circostante e, di conseguenza, non sapeva quale direzione prendere per trovare le balene. Dopo essersi brevemente rimproverata di non aver speso qualche minuto in più nello studio del monitor per imprimersi bene in mente tutti i punti di riferimento, si disse: Oh, be’, ormai è fatta. Tanto vale scegliere una direzione e seguirla. Anche perché non ho idea di dove stia l’oggetto segnalato dall’allarme.
La visibilità, sul fondo, era da discreta a buona: fra i quindici e i diciotto metri in ogni direzione. Carol corresse di un filo il galleggiamento e indicò quindi un varco fra due scogliere della barriera, Nick diede il proprio assenso con un cenno del capo. Tese le braccia lungo i fianchi per sveltire il movimento, Carol mosse le pinne su e giù e puntò verso il varco.
Alle sue spalle, Nick ne osservò la nuotata con apprezzamento e ammirazione: solcava l’acqua con la medesima grazia del branco giallo e nero di pesci angelo che le procedeva a fianco. Lui non l’aveva interrogata granché sulla sua esperienza di subacquea, per cui era sceso senza saper bene che cosa aspettarsi. Certo, dalla naturalezza e familiarità da lei dimostrate nel maneggiare l’equipaggiamento da immersione, aveva sospettato di aver di fronte una subacquea esperta; ma, di trovarsi davanti una sua pari, proprio no. A parte Greta, infatti, non aveva mai incontrato una donna che, come lui, si trovasse tanto a proprio agio sott’acqua.
Nick amava di un amore totale la pace e la serenità del ricco e vibrante mondo sottomarino. Là sotto, l’unico suono da lui mai udito era quello del suo stesso respiro. Tutt’intorno, le scogliere della barriera corallina pullulavano d’una vita d’inimmaginabile bellezza e complessità. In quel momento, per esempio, c’era sotto di lui una cernia intenta a prendere un bagno: seduta sul fondo di un foro naturale, lasciava che dozzine di minuscoli pesci spazzino la sgombrassero, nutrendosene, dei parassiti accumulati. E, un attimo prima, la sua discesa sul fondo aveva spaventato una manta nascosta nella sabbia. Questa grande razza, chiamata “diavolo di mare” dagli esperti, era sgusciata ondulando dal nascondiglio all’ultimo istante, mancandolo per un pelo con la sua coda possente e pericolosa.