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«Ti penti di aver aggiunto il prologo?» chiese la donna. Amanda Winchester era un’istituzione, a Key West. Fra le altre cose, era la decana degli impresari teatrali che avevano rivitalizzato la città. Proprietaria di due dei nuovi teatri della zona del porto e responsabile della formazione di almeno tre compagnie diverse di repertorio, amava il teatro e la sua gente. E Melvin Burton era il suo regista preferito.

«Tutt’altro, Amanda. È un miglioramento, direi, perché dà un primo assaggio del senso di frustazione generato dal portare un gruppo di battiste in un giro estivo del Messico. E, senza la scena di sesso in quella stanzetta d’albergo, dubito che la relazione fra Charlotte e Shannon sarebbe credibile per il pubblico.» Dopo una pausa di riflessione aggiunse: «Huston, del resto, ha fatto lo stesso nel film».

«Qui, però, la scena di sesso stride» obiettò l’uomo. «Anzi, è quasi comica. Gli abbracci che i due si scambiano sembrano quelli di mio fratello con le figlie.»

«Pazienza, Marc» disse Melvin.

«Sì: o si rimedia, o è meglio eliminare il prologo» concordò Amanda. «Ha ragione Marc: la scena, come l’abbiamo veduta stasera, è quasi comica, e questo dipende in parte dal fatto che Charlotte sembra una bambina, quando la recita.» Dopo una pausa, continuò: «Vedi, ha dei capelli lunghi che sono uno splendore, e noi glieli impiliamo sulla testa per farla sembrare austera e come si deve. Ora, è vero che, con il caldo che fa d’estate in Messico, non può certo portarli sciolti per tutta la giornata; però, se li sciogliesse nel momento di andare nella camera di Shannon… eh?».

«Ottima idea, Amanda! Sempre detto che saresti stata una regista favolosa…» Melvin e Marc si scambiarono un caloroso sorriso. Poi il regista si allungò in poltrona e si concentrò su quello che avrebbe detto di lì a poco ai due attori invitati a fermarsi.

Melvin Burton era un uomo felice. Abitava col suo compagno di stanza di quindici anni, Marc Adler, in una casa sulla spiaggia a Sugarloaf Key, una quindicina di chilometri a est di Key West. Aveva diretto commedie a Broadway per quasi un decennio e faceva teatro, in una veste o nell’altra, dalla metà degli anni Cinquanta, ma era sempre stato cauto nello spendere. Così, nel 1979, si era ritrovato con un pingue deposito in banca, e, preoccupato che l’inflazione potesse rosicchiarglielo, aveva chiesto consiglio a un commercialista amico di un suo intimo associato. Era stato quasi amore a prima vista. Marc aveva ventott’anni, all’epoca; e Melvin, col suo savoir faire e la sua spavalderia d’uomo di teatro, aveva dischiuso al giovane timido, schivo, insicuro di sé nel turbine di New York, aspetti della vita a lui sconosciuti.

Alla metà degli anni Ottanta, col boom della borsa, Melvin aveva visto il suo patrimonio netto sfiorare il milione di dollari. Non tutto era stato però così roseo, nella sua vita. L’epidemia di AIDS aveva infierito contro la comunità teatrale di New York, facendo perdere a lui e a Marc una quantità di amici di lunga data. E la sua carriera sembrava aver raggiunto il vertice: altri erano ora, sempre più spesso, i registi di grido.

Una notte, rincasando da teatro, Marc era stato aggredito da una banda di adolescenti, che l’avevano picchiato, derubato di orologio e portafoglio, e abbandonato sanguinante a terra. Nel medicargli le ferite, un Melvin rattristato aveva preso una grande decisione: quella di lasciare New York. Avrebbe venduto le azioni e trasformato il patrimonio in investimenti a reddito fisso, e comprato una casa in un luogo caldo e sicuro, dove lui e Marc potessero distendersi, leggere e nuotare insieme. Se poi avessero trovato da lavorare in qualche comunità teatrale, tanto meglio, non era l’essenziale. L’essenziale era che potessero passare insieme gli anni che a lui, Melvin, restavano da vivere.

Un giorno, mentre era in vacanza a Key West con Marc, Melvin s’era imbattuto in Amanda Winchester, una donna con la quale aveva collaborato brevemente, vent’anni addietro, a un progetto poi non andato in porto. E Amanda gli aveva detto di aver appena formato una compagnia di repertorio, con attori dilettanti, che intendeva dare due drammi di Tennessee Williams all’anno. Se per caso lui fosse stato interessato a dirigerla…

Melvin e Marc si erano così trasferiti a Key West e avevano cominciato a costruire la loro casa a Sugarloaf Key. In quanto al lavoro coi Key West Players, si era rivelato un piacere per entrambi. Gli attori erano persone comuni, appassionate e serie. Alcuni avevano già alle spalle qualche esperienza teatrale, ma la maggioranza — segretarie, casalinghe, commessi, e ufficiali e marinai semplici della base aeronavale — era costituita da novizi. Una cosa, però, avevano tutti in comune: ognuno vedeva i pochi giorni di palcoscenico come il proprio momento di gloria, ed era deciso a trarne il massimo.

Il capitano di fregata Winters fu il primo a lasciare il camerino. Portava la divisa (era venuto alle prove direttamente dalla base) e aveva un’aria fra l’impettito e l’insicuro. «Sono proprio contenta di rivederla fra noi» disse Amanda Winchester, stringendogli la mano, quando lui venne a sederlesi accanto. «Il suo Goober dell’autunno scorso mi è sembrato perfetto.»

Winters la ringraziò con garbo. «E come vanno le cose alla base?» domandò Amanda cambiando argomento. «Ho letto un articolo sul Miami Herald, l’altro giorno, che parlava di tutte le armi moderne di cui dispone oggi la Marina: sottomarini senza pilota, caccia a decollo verticale, siluri da ricerca a distruzione… Non sembrano esistere limiti, insomma, alla nostra capacità di fabbricare giocattoli di guerra sempre più potenti e pericolosi. E voi, ci siete dentro pure voi?»

«Oh, solo in piccola parte» rispose affabilmente il capitano Winters. Poi, anticipando la discussione col regista, si chinò in modo da aver di fronte sia Melvin e Marc che Amanda, e disse: «Mi scuso se stasera sono stato un po’ moscio. Ma abbiamo un paio di grossi problemi alla base, e così avevo forse la testa altrove. Domani, però, sarò pronto e…».

«Oh, non si preoccupi,» lo interruppe Melvin «non è di questo che volevo parlarle. No, si tratta della sua prima scena con Tiffani… Ah, ma eccola che arriva. Venga, andiamo in palcoscenico.»

Tiffani Thomas aveva quasi diciassette anni e faceva il terz’anno di superiori a Key West. Figlia di marinaio, dall’asilo d’infanzia aveva cambiato sette scuole. Aveva per padre un sottufficiale che era stato destinato a Key West circa tre mesi prima, ed era stata raccomandata a Melvin Burton dall’insegnante di teatro del liceo quando si era visto che la parte di Charlotte Goodall non andava decisamente bene per Denise Wright.

«Per me, finora, non ha fatto che delle prove,» aveva detto di lei l’insegnante «ma è una ragazza che impara in fretta le battute e che possiede una qualità, anzi un’intensità, che la distingue da tutti gli altri. E, chiaramente, ha già recitato. Non so se potrà prepararsi in tre settimane, ma, per me, è di gran lunga la più adatta.»

Bella, i suoi compagni di classe non l’avrebbero definita, probabilmente perché aveva i lineamenti troppo comuni per destare l’ammirazione della maggior parte dei ragazzi del liceo. I suoi pregi erano gli occhi verde-oliva, cheti e meditabondi, una carnagione pallida sparsa di lentiggini chiare, lunghe ciglia rosse sfumate di marrone, e una magnifica chioma di folti capelli biondo-ramati. Aveva anche un bel portamento eretto, non floscio come quello della maggioranza degli adolescenti, e ciò doveva probabilmente conferirle un’aria di superbia agli occhi dei coetanei. «È una ragazza che fa colpo» aveva detto di lei Amanda, con giudizio azzeccato, quando l’aveva vista per la prima volta.