Nel sogno, il banco è troppo alto, e lei non ha soldi. «Dov’è la tua mamma, piccola?» domanda l’uomo. Carol scuote la testa, e lui ripete la domanda. Lei si rizza sulla punta dei piedi e gli sussurra, in confidenza, che la sua mamma beve troppo, ma che il suo papà le compra sempre tanti dolci.
L’uomo sorride, ma continua a non volerle dare i cioccolatini. «E tuo padre dov’è, piccola?» domanda di nuovo. Nella vetrina, Carol vede riflesso un uomo affettuoso e sorridente che le sta alle spalle, in mezzo a due montagne di cioccolatini. Si gira, aspettandosi di vedere suo padre, ma scopre che l’uomo alle sue spalle non lo è. Ha una faccia grottesca, sfigurata, costui. Spaventata, torna a girarsi verso i cioccolatini. L’uomo sta ritirando tutto perché è ora di chiusura. Lei comincia a piangere.
«Dov’è tuo padre, piccola? Dov’è, eh?» La bambina del sogno singhiozza disperatamente. È circondata da omoni e donnone che, tutti, le fanno domande. Si tura le orecchie con le mani.
«Se n’è andato,» urla finalmente Carol «se n’è andato! Ci ha lasciate e se n’è andato, e ora io sono tutta sola!»
CICLO 447
1
Sullo sfondo nerissimo delle stelle sparse, i filamenti della galassia della Via Lattea paiono esili bave di luce aggiunte dal pennello di un grande artista. Qui, all’estremità lontana della Conchiglia Esterna, presso il punto dove comincia quello che i Coloni chiamano l’Abisso, non v’è traccia della fervida attività della Colonia, distante circa ventiquattro millicicli-luce. Una maestosa, ininterrotta quiete fa da sfondo all’ineffabile bellezza di un cielo nero trapunto di vivide stelle.
Dal vuoto giunge di colpo un piccolo robot da comunicazioni interstellari. Il robot cerca, finisce per trovarlo, uno scuro satellite sferico di circa cinque chilometri di diametro, che può venir facilmente trascurato nel grande panorama del cielo dei cieli. Passa del tempo. Una ripresa ravvicinata mostra dell’attività in corso, sul satellite. Luci artificiali soffuse illuminano ora tratti della superficie. Veicoli automatizzati sono all’opera alla periferia dell’oggetto, del quale vanno apparentemente cambiando la forma. Vengono infatti smantellate alcune strutture esterne, che i veicoli trasportano lontano a un deposito provvisorio. Alla fine, il satellite originario scompare del tutto, e rimangono soltanto due lunghe rotaie parallele in lega, costituite da sezioni di duecento metri l’una e ricavate dai pezzi di ricambio dell’ormai svanito satellite. Ciascuna rotaia ha una larghezza di dieci metri, ed è separata dalla parallela di un centinaio di metri.
I viaggi all’area di deposito continuano regolari fino a esaurimento del materiale utile, e finché le rotaie non hanno raggiunto una lunghezza di quasi sedici chilometri. Poi l’attività cessa. Le rotaie da nulla a nulla, stanno nello spazio come mute testimoni d’una grande opera d’ingegneria abbandonata all’improvviso. Ma è proprio così? Immediatamente al disotto di una coppia binaria di spicco, le due luci più vivide del cielo orientale, appare un puntino. Il puntino s’allarga e s’allarga fino a dominare il quadrante orientale del cielo. Una dozzina, no, sedici grandi navi interstellari da carico, con fari lampeggianti di vivida luce rossa, guidano nella regione un convoglio di veicoli-robot. Le fantomatiche rotaie da nulla a nulla vengono circondate. La prima nave da carico si apre e fa uscire otto navicelle spaziali, ciascuna delle quali rimonta la rotta verso un’altra delle grandi navi e aspetta in silenzio, all’esterno, che si compia per intero l’arrivo del convoglio.
L’ultimo veicolo ad arrivare è un minuscolo rimorchiatore spaziale che si trascina un lungo oggetto affusolato. Simile a due ventagli giapponesi uniti insieme per le estremità, questo è incassato in una lamina trasparente di protezione fatta di materiale sottilissimo. E, da un capo all’altro, gli si vedono danzare attorno, come colibrì, otto veicoletti dardeggianti, che sembrano, a un tempo, guidarlo, proteggerlo e controllarne lo stato di salute.
Le grandi navi da carico, dalla forma di antichi dirigibili, si aprono ora a svelare il loro contenuto. La maggioranza trasporta pile enormi di pezzi di rotaia. Le navicelle caricano i pezzi, impilati come sono, e li depongono a mucchi per chilometri e chilometri in entrambi i sensi delle rotaie preesistenti. Verso la fine delle operazioni di scarico, quattro navicelle si accostano alla fiancata di una delle ultime navi da carico e aspettano l’apertura del portello prodiero. Dal ventre della nave escono otto macchine che, attaccate le quattro navicelle in coppie, le smontano con cura e ne riportano i pezzi nell’oscurità della stiva prodiera. Pochi momenti dopo, dalla grande nave emerge una complessa macchina a snodo di forma oblunga, che, una volta all’esterno, s’allunga sino a formare un banco lungo quasi un chilometro e mezzo: un banco con una piattaforma centrale, su cui, all’incirca ogni cento metri, una serie più modesta di componenti coordinati si trasforma in un gruppo locale ultraorganizzato.
È il sistema costruttore automatizzato e pluriuso, uno dei tesori tecnologici dei Coloni. Il sistema si sposta ora per intero in capo alle rotaie, e i suoi molti manipolatori a distanza prendono a estrarre pezzi di rotaia dalle diverse cataste. Le mani e le dita dei manipolatori, prodotto di una tecnica sofisticata, posano abilmente i pezzi e li fissano con saldature atomiche. A una velocità sbalorditiva: pochi minuti per un chilometro e mezzo di rotaia. Dopodiché, la grande macchina costruttrice si sposta presso un’altra catasta. Alla fine, le rotaie si stendono nello spazio per oltre centocinquanta chilometri.
Completato questo lavoro, il sistema costruttore intraprende la metamorfosi successiva. Strappandosi in pezzi a partire dai due capi del lungo banco, la monolitica struttura scompare per riorganizzarsi in migliaia di componenti, separati ma simili. Questi componenti, simili a formiche, attaccano a gruppi ciascuno un pezzo di rotaia, misurando con cura tutte le dimensioni e controllando tutte le saldature fra parti adiacenti. Poi, come a un segnale, i binari ai quattro capi dei segmenti di rotaia prendono a incurvarsi e ad alzarsi, sotto la spinta dei componenti-formiche. E torcendosi all’insù, sempre più all’insù, si trascinano dietro il resto delle rotaie. Le due lunghe linee parallele finiscono così col trasformarsi in un gigantesco doppio cerchio, di raggio superiore ai quindici chilometri, che sembra una ruota di luna-park sospesa nello spazio.
Completato il doppio cerchio il sistema costruttore torna a riconfigurarsi. Alcuni dei suoi nuovi elementi afferrano il lungo oggetto affusolato in forma di ventagli giapponesi giustapposti per le estremità, e, sotto l’attenta sorveglianza dei colibrì protettori, lo drizzano a lato del doppio cerchio. L’oggetto — che, non sorprendentemente, si rivela d’una lunghezza quasi identica a quella del diametro del doppio cerchio — viene quindi inserito nella struttura circolare, con orientamento da nord a sud, a mo’ di razza. Poi, mentre alcuni colibrì fissano alla struttura le estremità della razza mediante sottili cavi invisibili da essi generati, il resto dei minuscoli, rapidissimi veicoli meccanici crea una ragnatela che inviluppa la sezione centrale e collega la grande antenna con l’asse est-ovest del doppio cerchio.
Una volta collegata alla struttura di supporto, l’antenna si apre lentamente ad ambo i capi, settentrionale e meridionale, del doppio cerchio. Una visione ravvicinata rivela che le delicate pieghe vengono separate ad una a una dai colibrì. Le pieghe si svolgono tutte, e l’interno del doppio cerchio appare così occupato da un misto di reti, nervature e strutture sbalorditivamente complesse. Lo spiegamento iniziale è ora completo.