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«Ma figurati, è stato un piacere.» Dale era raggiante. Per lui era una gioia poter aiutare Carol a far carriera. Da quasi un anno e mezzo, ormai, non le dava tregua, manovrando scientificamente con la parte sinistra del cervello, ma ancora non era riuscito a persuaderla che un rapporto stabile avrebbe giovato a entrambi. Perché qui stava appunto, almeno secondo lui, il problema.

«Io penso che questa faccenda delle balene potrebbe essere un’ottima copertura» stava dicendo Carol. «Come sai, la mia preoccupazione era che il tuo telescopio potesse attirare troppa attenzione, e la storiella della caccia al tesoro non regge, se vengo riconosciuta da qualcuno di qui. Ma la necessità di seguire la storia delle balene è un buon pretesto, mi sembra. Tu, che ne pensi?»

«Mi pare che stia in piedi, sì» rispose Dale. «Fra l’altro, stamattina è stato segnalato un altro paio di episodi anomali: l’arenamento di un mezzo branco di balene a Sanibel e una supposta aggressione a un peschereccio a nord di Marathon, un peschereccio di proprietà di un vietnamita assai impressionabile. Naturalmente, non si è mai sentito, o quasi, di attacchi a esseri umani o loro cose da parte di false orche; però, a te, magari, la cosa può servire.»

Carol lo vide alzarsi dal divano e cominciare ad andare su e giù per l’ufficio. Il dottor Dale Michaels aveva tanta energia, che gli era quasi impossibile sedere tranquillo o rilassarsi. Sebbene stesse per compiere quarant’anni di lì a pochi mesi, possedeva la vivacità e l’entusiasmo di un adolescente.

«Bada solo a non far sapere a nessuno della Marina che hai il telescopio» continuò. «Stamattina hanno chiamato di nuovo per chiedere una terza serie di attrezzature. Io ho detto loro che il terzo telescopio era fuori in prestito per certe ricerche. Ma, qualunque cosa stiano cercando, dev’essere una cosa importante. E segretissima» aggiunse, voltandosi a guardare la telecamera. «Sempre stamattina, quando gli ho posto un normale quesito scientifico, quel tenente Todd mi ha detto che, trattandosi di una faccenda della Marina, lui ha la bocca cucita.»

Carol prese qualche appunto su un taccuino a spirale. Poi riprese: «Sai, Dale, ieri, quando me ne hai parlato, ho pensato subito che questa storia avesse un potenziale tremendo. Tutto indica che la Marina sia coinvolta in qualcosa di insolito e di segreto. Io stessa sono rimasta divertita, ieri al telefono, dal modo dilettantesco con cui questo Todd, prima ha tentato di mettermi i bastoni fra le ruote, poi ha preteso di sapere chi mi avesse fatto il suo nome. Io gli ho detto che, secondo una fonte del Pentagono, la Base Aeronavale di Key West avrebbe in corso delle attività con priorità assoluta, alle quali lui, Todd, sarebbe associato. Lui è sembrato prenderla per buona. E io sono convinta che lo stupidotto locale delle relazioni pubbliche della Marina non sappia un accidente di quello che sta succedendo».

Portando di scatto una mano alla bocca, Carol soffocò uno sbadiglio. «Be’, è troppo tardi per tornare a letto. Credo quindi che farò un po’ di nuoto e poi andrò a cercare la barca di cui abbiamo parlato. Mi sembra di andare alla ricerca del classico ago nel pagliaio, ma la tua ipotesi potrebbe essere valida. Comincerò comunque con la cartina che mi hai dato tu. E se quelli hanno perso sul serio un missile da crociera quaggiù e tentano di insabbiare la cosa, per me sarà uno scoop coi baffi. Ci risentiamo più tardi.»

Dale la salutò con un cenno e interruppe la comunicazione. Carol lasciò il salone e attraversò tutto l’albergo. Aveva una camera che dava sull’oceano al pianoterra. L’Herald non avrebbe certo pagato un lusso del genere, ma lei aveva deciso di concederselo lo stesso, per una volta tanto. Mentre s’infilava il costume da bagno aderente da allenamento, ripensò fra sé alla conversazione appena avuta con Dale. Nessuno immaginerebbe mai che lui e io siamo amanti. O partner sessuali, diciamo. È tutto così pratico e prosaico, come fra compagni di squadra o roba del genere. Niente “caro” né “tesoro”. Una pausa, poi completò la sua riflessione: Che sia così per colpa mia?

Quando lasciò la stanza per la spiaggia dell’albergo, erano quasi le nove e il luogo si stava svegliando. Sulla spiaggia, gli addetti, appena arrivati, stavano sistemando sdraio e ombrelloni per i clienti mattinieri. Carol andò dal giovane bagnino-capo (“Un Charlie-il-Terribile sputato”, pensò sarcastica, vedendolo pavoneggiarsi davanti al suo baracchino) per informarlo che usciva per una lunga nuotata d’allenamento. In altre due circostanze, infatti, avendo scordato di avvertire i bagnini dell’albergo che usciva a nuotare a mezzo miglio dalla spiaggia, era stata, con suo disappunto, “tratta in salvo”, e aveva provocato scene spiacevoli.

Mentre entrava nel ritmo dello stile libero, sentì a poco a poco allentarsi la tensione, e sciogliersi i nodi che la imprigionavano la maggior parte del tempo. Sebbene sostenesse che l’esercizio fisico costante le serviva per tenersi in forma, la vera ragione per la quale ogni mattino passava tre quarti d’ora a correre, nuotare o marciare, era che ciò le serviva per reggere al ritmo vorticoso della sua vita. Solo dopo un duro esercizio riusciva infatti a sentirsi veramente tranquilla e in pace col mondo.

Mentre nuotava su lunghe distanze, le accadeva normalmente di lasciar vagare la mente alla ventura. Quella mattina, per esempio, ricordò una nuotata di parecchio tempo addietro, nelle fredde acque del Pacifico presso Laguna Beach in California. Aveva otto anni, allora, ed era andata a una festa di compleanno di un’amica, una certa Jessica, da lei conosciuta a un campeggio estivo. Jessica era ricca. Aveva una casa da più di cento milioni di dollari, e più giocattoli e bambole di quanti lei, Carol, non arrivasse a immaginare.

Mmm, pensò, al ricordo della festa di Jessica, con tanto di clown e pony. Era l’epoca in cui credevo ancora alle fate. Prima della separazione e del divorzio…

Lo squillo dell’orologio-sveglia spezzò le sue fantasticherie. Due bracciate a U, e si diresse verso la spiaggia. Nel farlo, notò qualcosa d’insolito con la coda dell’occhio. A meno di venti metri, una grande balena emerse dall’acqua, provocandole un brivido giù per la schiena e un afflusso di adrenalina nel sangue. Poi la balena scomparve sott’acqua, e lei, per quanto fosse rimasta a galla in verticale per un paio di minuti, gli occhi fissi all’orizzonte, non la rivide più.

Allora riprese a nuotare verso riva. Il battito cardiaco aveva cominciato a tornare normale, dopo l’incontro, e ora ripensava al fascino che da una vita esercitavano su di lei le balene. Ricordò così di aver avuto una balena-giocattolo di Sea World, a San Diego, all’età di sette anni. Come si chiamava? Shammy. Shamu. Qualcosa del genere… Poi ricordò un’esperienza ancora precedente, alla quale non pensava più da venticinque anni.

Aveva cinque o sei anni, e sedeva nella sua camera, pronta ad andare a nanna come d’obbligo, quando era entrato suo padre con un libro illustrato. Si erano seduti insieme sul letto, la schiena appoggiata alla carta da parati a fiori gialli, e lui aveva cominciato a leggere. Lei era felice quando suo padre, un braccio attorno alle spalle, le girava le pagine in grembo. Si sentiva protetta e serena. Lui le lesse una storia di una balena che sembrava umana e di un uomo chiamato Capitano Ahab. Ma le immagini erano spaventose: una, in particolar modo, con una barca sballottata da una gigantesca balena che aveva un arpione infisso nel dorso.

Quella sera, dopo averle rimboccato le coperte, suo padre aveva indugiato parecchio con lei, coprendola di teneri abbracci e di baci. Quando gli aveva visto le lacrime agli occhi, lei gliene aveva chiesto la ragione. Lui, scuotendo la testa, le aveva risposto che era l’amore per lei, un amore così grande che, a volte, lo faceva piangere.

Immersa profondamente in questo vivo ricordo, Carol nuotava senza far caso alla direzione, e si trovò trasportata dalla corrente verso ovest, quasi fuori vista dell’albergo. Le ci vollero così alcuni minuti per orientarsi e riprendere la direzione giusta.