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Anziché discutere con Betty, le diede un bacio fraterno sulla guancia e lei spense la luce. Per un momento, si chiese: Quand’è stata l’ultima volta: tre settimane fa? No, non riusciva a ricordare né la data, né se fosse stato piacevole o meno. Loro “folleggiavano”, come diceva Betty, quando lei, rendendosi conto del bisogno di lui, vinceva la sua generale mancanza d’interesse. Il che è probabilmente più o meno normale, per coppie della nostra età, pensò lui, come a difendersi, nello spogliarsi in camera sua.

Ma il sonno non voleva venire. Mentre giaceva quieto nel buio sotto il lenzuolo, continuava ad avvertire quel senso di eccitazione intensa che l’aveva preso, prima durante la recita, poi, di nuovo, nel vicolo.

Un’eccitazione accompagnata da immagini. Chiudendo gli occhi, rivide le morbide, civettuole labbra di Tiffani soffiare l’ultimo fumo rimasto nei polmoni. E la sua bocca conservava il sapore dei baci appassionati di lei impostigli durante la scena in camera da letto. E l’occhiata particolare del padre quando gli aveva chiesto di badare a lei alla festa, se l’era solo immaginata?

Cambiò più volte di posizione, nel tentativo di scacciare le immagini dalla mente insieme col nervosismo che lo teneva sveglio, ma invano. Alla fine, mentre giaceva sulla schiena, si rese conto che, volendo, un modo per sciogliere quel genere di tensione c’era. Lì per lì provò un senso di colpa, anzi d’imbarazzo, ma le immagini di Tiffani non gli davano requia.

Si toccò. Le immagini della giornata si acuirono e cominciarono a espandersi in fantasie. Lei gli stava sopra nel letto, proprio come nel dramma, e lui rispondeva ai suoi baci. Per un breve secondo, ebbe paura e si frenò. Ma un disperato empito di desiderio travolse la sua ultima inibizione, e tornò adolescente, solo con la sua fertile fantasia.

La scena cambiò. Ora giaceva nudo su un letto enorme, in una lussuosa stanza dall’alto soffitto. Tiffani usciva dal bagno illuminato, nuda anch’essa, i lunghi capelli ramati sciolti sulle spalle e sopra i capezzoli. Tirava languidamente un’ultima boccata e posava la sigaretta nel portacenere accanto al letto, gli occhi fissi nei suoi, mentre lentamente, quasi amorosamente espelleva dalla bocca l’ultimo fumo. Poi saliva sul letto accanto a lui, facendogli sentire la morbidezza della propria pelle e sollecitandogli collo e torace coi lunghi capelli.

Ora lei lo baciava dolcemente ma con passione, tenendogli le mani dietro la nuca e giocando seducente con la lingua fra le sue labbra. Poi gli scivolava in posizione accanto e gli premeva il bacino contro il suo. Lui si sentì erigere. Lei gli prese in mano il pene e premette leggermente, facendolo ergere del tutto. Dopo aver premuto di nuovo, sollevò con grazia il corpo e lo infilò profondamente in sé. Lui sentì un magico calore umido ed esplose quasi subito.

La potenza e l’intensità di tale fantasia lo sconvolsero. Una voce, dentro di lui, gli gridò di stare attento, minacciando tremende conseguenze se avesse consentito alla sua fantasia di divenire troppo reale. Ma, mentre giaceva svuotato e solo nella sua casa suburbana, spinse da parte senso di colpa e paure e si concesse il piacere senz’uguali del sonno post-orgasmico.

9

Lo Sloppy Joe era un’istituzione, a Key West. Il bar prediletto di Hemingway e della sua variopinta compagnia aveva saputo adattarsi in fretta alla sfaccettata evoluzione della città di cui era divenuto il simbolo. Molti abitanti della città vecchia avevano quasi avuto un colpo, quando il bar aveva rinunciato alla storica sede centrale per trasferirsi nel vasto complesso commerciale intorno al nuovo porto turistico. Anch’essi, però, dopo la riapertura del locale in un grande salone ben ventilato e munito di pedana d’orchestra e di ottima acustica, erano stati loro malgrado costretti ad ammettere che le lampade di Tiffany, i lunghi banconi in legno del bar, gli specchi stretti dal pavimento al soffitto e i memorabilia di cent’anni di Key West erano stati disposti con gusto, e in maniera tale da conservare lo spirito del bar di una volta.

Che Angie Leatherwood si esibisse come vedette allo Sloppy Joe durante i suoi brevi e infrequenti ritorni nella città natia, era più che naturale. Il proprietario, un cinquantenne newyorkese trapiantato di nome Tony Palazzo, era stato a suo tempo convinto dalla loquela di Troy a concederle un’audizione quando aveva diciannove anni. Dopo cinque minuti d’ascolto, aveva esclamato, punteggiando le proprie osservazioni di gesti vivacissimi: «Non solo mi porti una ragazza nera bella da levare il fiato: ma me ne porti una che è bella e che canta anche come un usignolo. Mamma mia, la vita è proprio ingiusta! Mia figlia Carla ammazzerebbe, pur di cantare così!». Tony era diventato il maggiore fan di Angie, e ne aveva promosso la carriera senza badare minimamente al proprio tornaconto. E Angie, non dimentica di ciò che lui aveva fatto per lei, cantava sempre allo Sloppy Joe quando si trovava in città. Era fatta così.

Il tavolo di Troy era davanti e al centro, a circa tre metri dalla pedana. Nick e Troy vi erano già seduti e avevano già consumato un giro di bicchieri quando arrivò Carol. Mancavano circa cinque minuti alle dieci e mezzo. Lei si scusò mormorando qualcosa circa i vantaggi del parcheggiare in Siberia. Non appena si fu seduta, Nick estrasse la busta delle foto e sia lui che Troy le dissero di averle trovate affascinanti. Nick passò subito a far domande, mentre Troy chiamava il cameriere. Quando questi tornò con le nuove bevande, Nick e Carol erano ormai in piena conversazione. Discutevano degli oggetti della fessura, e Nick aveva appena detto che uno di essi sembrava un missile moderno. Ma erano le dieci e trenta, e un lampeggiare intermittente delle luci annunciò l’inizio dello spettacolo.

Angie Leatherwood era un’artista consumata. Al pari di molti dei migliori intrattenitori, non dimenticava mai che pubblico equivaleva a clientela, e che era il pubblico a creare la sua immagine e ad accrescerne la mistica. Cominciò con la canzone che dava il titolo al suo ultimo album: Memories of Enchanting Nights e passò quindi a un pot-pourri di canzoni di Whitney Houston, in segno di omaggio alla geniale cantante il cui talento era stato all’origine del suo desiderio di abbracciare la stessa carriera. Poi dimostrò la propria versatilità mescolando quattro canzoni dal ritmo diverso — un reggae giamaicano, una dolce ballata del suo primo album Love Letters, un’imitazione quasi perfetta di Diana Ross in una vecchia canzone dei Supremes, Where Did Our Love Go?, e un ritmico, struggente elogio del padre cieco intitolato The Man with Vision.

Scroscianti applausi salutarono la fine di ogni pezzo. Lo Sloppy Joe era zeppo, posti in piedi lungo i trenta metri di bancone-bar compresi. Sette supertelevisori diversi, sparsi per il vasto locale, portavano l’immagine di Angie agli spettatori più lontani dalla pedana. Tutti costoro erano la sua gente, i suoi amici. Un paio di volte, gli applausi e i brava, nella loro interminabilità, la misero quasi in imbarazzo. Al tavolo di Troy, non si parlò quasi durante lo spettacolo. Il terzetto sottolineò qualche canzone prediletta (quella di Carol era The Greatest Love of All, di Whitney Houston), ma non ebbe tempo per conversare. Angie dedicò la penultima canzone: Let Me Take Care of You Baby, al suo “amico più caro” (pedata di Nick a Troy sotto il tavolo), e poi concluse col motivo più popolare di Love Letters. Il pubblico le tributò un’ovazione in piedi e chiese a gran voce il bis. Mentre stava anche lui in piedi, Nick si sentì girare un po’ la testa in conseguenza dei due bicchieri di liquore forte, e avvertì insieme una commozione vaga, forse provocata dalle associazioni subliminali che le canzoni d’amore di Angie avevano saputo suscitare.