Выбрать главу

«E tu, fratellino?» sorrise Jamie, scostando il piatto alla fine della cena. «I voti di quest’ultimo trimestre ti qualificano a diventare un futuro astronauta?»

«I voti non sono male,» aveva risposto Troy, nascondendo il proprio orgoglio. «Ho avuto solo un “buono più” in sociologia perché, secondo il mio prof, il mio saggio sul Canale di Panama dimostrava un atteggiamento antiamericano.»

«Be’, un “buono più” ogni tanto, direi che è accettabile» aveva riso Jamie, dimostrando chiaramente l’affetto che sentiva per il fratello minore. «Però scommetto che Burford, di “buoni”, non deve averne presi molti, quando era in prima superiore!»

Ogni volta che rievocava la sera fatale dell’uccisione del fratello, Troy ricordava sempre quella sua citazione di Guion Burford, il primo astronauta americano di pelle nera. La maggior parte delle volte, poiché il procedere immediatamente al terribile ricordo del fratello morente fra le sue braccia sarebbe stato troppo doloroso, la sua memoria sceglieva il divagare verso circostanze più felici, riportandogli un ricordo di Jamie altrettanto vivido di quella sua morte, ma lieto e confortante anziché straziante e deprimente.

L’estate prima della sua morte, in un’afosa giornata di tardo agosto, Jamie Jefferson aveva combinato un terzo incontro privato col proprio allenatore di football nella sede dei Florida, per chiedergli il permesso di saltare l’allenamento per due giorni in modo da portare Troy ad assistere al lancio della navetta spaziale. Nei primi due incontri, l’allenatore si era energicamente opposto all’idea di una sottrazione di tempo all’impegno primario dell’allenamento, ma un no deciso non l’aveva pronunciato.

«Lei continua a non capire, mister» aveva detto fermamente Jamie all’inizio del terzo e ultimo incontro. «Il mio fratellino non ha padre. Ed è un genio in matematica e scienze. Lui, di quei test attitudinali standardizzati, se ne fa un boccone come ridere. Ma ha bisogno di un modello d’identificazione: ha bisogno di sapere che i neri possono fare cose importanti anche al di fuori degli sport.» L’allenatore aveva finito per cedere e gli aveva dato il permesso, ma soltanto perché consapevole che lui se lo sarebbe preso comunque.

Jamie aveva attraversato senza soste la Florida con la sua scassata Chevrolet, preso il fratello a Miami, e proseguito verso nord, senza dormire, per altre quattro ore fino a Cocoa Beach, dov’era arrivato in piena notte. Sfinito, aveva parcheggiato la macchina in una zona di accesso alla parte più bella della spiaggia, accanto a un palazzo d’abitazione di sei piani. «E adesso, fratellino, dormi un po’» aveva detto quindi.

Troy, però, non ne era stato capace, tanta era la sua emozione al pensiero del lancio dell’indomani sera, l’ottavo della serie ma il primo ad avvenire di notte. Aveva letto tutto il possibile sull’astronauta Burford e sui piani della missione, e continuava a immaginare di vivere nel futuro e di esser lui, Troy Jefferson, l’astronauta in procinto di venir lanciato nello spazio. Dopo tutto, Burford era la prova vivente che la cosa era possibile, che un americano nero poteva raggiungere i gradini superiori della scala sociale e diventare un eroe popolare in forza della propria intelligenza, della propria personalità e del proprio duro lavoro.

All’alba, era sgusciato dalla macchina e aveva percorso i pochi metri che lo separavano dalla spiaggia. Regnava una gran quiete. In giro si vedevano solo qualche persona che passeggiava o correva e un paio di bizzarri granchi da spiaggia, i cui occhi s’agitavano avanti e indietro alla sommità dei caratteristici peduncoli durante la camminata sghemba verso le tane nella sabbia. A nord, Troy poteva vedere alcune delle piste di lancio per razzi senza equipaggio della base aerea di Cape Canaveral, ma, dentro di sé, lui se le figurava come l’attrezzatura di lancio della navetta spaziale. Si domandò che cosa facesse in quel momento l’astronauta Burford. Consumava la colazione? Era con la famiglia o con l’equipaggio dell’astronave?

Jamie si era svegliato verso mezzogiorno, e i due fratelli avevano passato il primo pomeriggio sulla spiaggia, a ridere e a giocare insieme fra i frangenti. Poi, acquistati degli hamburger, avevano percorso la mezz’ora di tragitto che li separava dal centro spaziale Kennedy. Jamie aveva costretto un avido sostenitore dei Gator (un dirigente aerospaziale residente a Melbourne) a procurargli dei biglietti per la zona d’osservazione dei VIP. Ci arrivarono poco prima del calar della notte. Sette chilometri più in là, l’imponente complesso della navetta, consistente in una parte orbitante montata su una cassa esterna arancio con due razzi impulsori a lato, stava eretto contro la torre di lancio, mentre cominciava il conto alla rovescia.

Nella vita scientifica di Troy, nessuna esperienza avrebbe mai più potuto rivaleggiare con l’osservazione di quel lancio notturno della navetta spaziale. Mentre ascoltava gli altoparlanti della zona VIP annunciare l’inizio del conto alla rovescia, aveva provato una smania impaziente, ma non reverenza. Nell’istante in cui si erano accesi i motori, e la notte della Florida s’era empita di fiamma arancione e di dense e turbinanti nuvole di fumo, gli erano quasi schizzati gli occhi dalle orbite. Ma la combinazione tra la vista della gigantesca astronave, in lenta e maestosa ascesa nel cielo a cavallo d’una lunga fiamma sottile, e quel suono sbalorditivo — un fragore costante, punteggiato di inspiegabili scoppiettii (che, già a sette chilometri di distanza, arrivava una ventina di secondi dopo l’immagine dell’accensione dei motori), gli aveva fatto venire la pelle d’oca, le lacrime agli occhi, e un prurito in tutto il corpo. Questa intensa eccitazione emotiva era durata assai più di un minuto. In piedi accanto al fratello Jamie, la mano stretta forte nella sua, aveva arcuato la schiena a seguire la fiamma in ascesa, su, sempre più su, fino alla sua scomparsa nel cielo notturno.

Dopo il lancio, i fratelli tornarono a dormire in macchina. Poi Jamie lasciò Troy alla stazione delle corriere di Orlando e tornò a Gainesville per gli allenamenti. Il giovane Troy si sentì un altro: una persona trasformata da quell’esperienza. Nella settimana successiva seguì il volo come ossessionato e Burford diventò il suo eroe, il suo nuovo idolo. Nei primi due trimestri dell’anno seguente, si applicò con zelo agli studi. Ora aveva una meta: diventare astronauta.

Ma non sapeva che, una notte di marzo di soli sette mesi dopo, avrebbe avuto un’altra esperienza — tanto devastante e sconvolgente, da annullare l’emozione provata al lancio della navetta. Quella sera degli ultimi di marzo, Jamie aveva fatto un salto in camera sua prima di uscire verso le otto. «Vado da Maria, fratellino» aveva detto. «Probabile che andiamo al cinema.»

Maria Alvarez aveva diciott’anni ed era ancora alle superiori. Era la ragazza fissa di Jamie da un paio d’anni, e abitava a Little Havana coi genitori cubani e otto tra fratelli e sorelle.

Troy l’aveva abbracciato. «Sono contento che sei qui, Jamie. Ho un sacco di cose da farti vedere. A scuola ti ho fatto una cuffia stereo…»

«Vedrò tutto, ma domattina» l’aveva interrotto Jamie. «Adesso tu, però, non stare alzato troppo. Gli astronauti devono dormire parecchio, se vogliono essere svegli al momento giusto!» E, con un sorriso, era uscito. E fu, quella, l’ultima frase che Troy gli avrebbe sentito dire.

Che cosa avesse udito per prima cosa, destandosi in piena notte, non era più riuscito a ricordare. L’urlo straziante della madre si era mescolato al gemito acuto delle sirene vicine, creando un intrico di suoni indimenticabile e terrificante. Troy si era precipitato alla porta e in cortile con addosso solo i pantaloni del pigiama. Il suono della sirena dell’ambulanza si faceva sempre più vicino. Sua madre era in capo al vialetto d’accesso alla casa, china su un corpo scuro steso a mezzo fra la strada, davanti alla Chevrolet di Jamie, e il cortile. Attorno a lei, impazzita dal dolore, stavano tre poliziotti e mezza dozzina di curiosi.