«Chissà come ha fatto a tornare a casa» sentì dire da un poliziotto, mentre cercava disperatamente di capire che cosa fosse accaduto. «È incredibile, con tutto il sangue che ha perduto. Deve essere stato colpito quattro volte allo stomaco…»
L’urlo della madre montò di nuovo, e, in quell’istante, Troy ricompose i pezzi e riconobbe il corpo steso sulla schiena. Raggelato, il fiato mozzo, cadde in ginocchio accanto alla testa del fratello. Jamie si sforzava di respirare, gli occhi aperti ma vitrei.
Troy gli prese la testa fra le mani, e gli guardò lo stomaco. La maglietta sportiva rossa era intrisa di sangue, e il sangue sembrava sgorgare con flusso ininterrotto da un punto appena al di sopra dei genitali, ed era dappertutto — sui jeans di Jamie, per terra, dappertutto, dappertutto… Troy ebbe un conato come di vomito, si strozzò, ma non rigettò nulla. Gli occhi gli si riempirono di lacrime.
«Pensiamo sia opera di qualche banda, signora Jefferson» continuò monotono il poliziotto. «E probabilmente è stato colpito per sbaglio, perché tutti sanno che Jamie non aveva niente a che fare con quella razza di gente.» Erano arrivati dei giornalisti, e lampeggiavano i flash. Altre sirene in avvicinamento…
Gli occhi di Jamie si spensero, e il respiro cessò. Troy si strinse la testa del fratello al petto, sapendo d’istinto che era morto, e cominciò a singhiozzare incontrollabilmente. «No,» mormorava «no. Non mio fratello… non Jamie… lui che non ha mai fatto male a nessuno…»
Qualcuno tentò di confortarlo, di battergli la mano sulla spalla, ma lui respinse tutti con violenza, gridando, fra un singhiozzo e l’altro: «Lasciatemi stare! Era mio fratello, il mio unico fratello!». Dopo qualche istante, gli posò delicatamente la testa a terra, e gli crollò accanto disperato.
Verso le tre e mezzo del mattino d’una decina di anni dopo, nel marzo del 1994, Troy Jefferson, solo nella villetta bifamiliare, si sarebbe svegliato al ricordo del terribile momento della morte di Jamie e avrebbe rivissuto lo strazio di quella perdita. E, rivivendolo, si sarebbe reso conto con lucidità che la maggior parte dei suoi sogni di adolescente era morta con quella morte, e che la sua rinuncia all’università e al futuro da astronauta era indissolubilmente legata al ricordo di Jamie.
Nei tre anni seguenti alla morte di Jamie, aveva continuato le superiori in qualche modo, e c’erano voluti gli sforzi congiunti della madre, della scuola e delle autorità cittadine per impedirgli di abbandonare del tutto gli studi. Poi, appena preso il diploma, aveva lasciato Miami. O, meglio, ne era scappato: scappato da ciò che era accaduto e da ciò che avrebbe potuto accadere. Per oltre due anni aveva quindi vagato senza meta per il Nordamerica, giovane nero solitario privato d’amore e d’amicizia, alla ricerca di qualcosa che potesse fargli vincere quel senso di vuoto che gli era compagno costante.
E alla fine sono capitato a Key West avrebbe pensato, anni dopo, nel tornare a letto a metà mattina per un altro paio d’ore di sonno. E per chissà quale ragione mi ci sono fatto una casa. Forse era semplicemente tempo che lo facessi. O forse avevo imparato abbastanza per sapere che la vita continua. Come che sia, anche se la ferita non si è ancora rimarginata, ho superato il problema Jamie. E trovato il Troy perduto. O almeno spero.
Gli tornò improvvisamente in mente il sogno interrotto dalla sirena: Angie, bella sotto la luna nel suo costume da bagno bianco. Alé, torniamo a dove s’era lasciato…, rise fra sé, concentrandosi sulla immagine di lei nel tornare a dormire.
2
«Buondì, angelo!» lanciò Troy con un gran sorriso, mentre Carol si avvicinava alla Florida Queen. «Pronta per un po’ di pesca?» Saltando dalla barca, gridò a Nick, che era a poppa, dall’altra parte del tendaletto: «È arrivata, professore! Vado al parcheggio a prendere la sua roba». Carol gli consegnò le chiavi dell’auto, e Troy si avviò verso la capitaneria.
Carol rimase sulla gettata in attesa che Nick emergesse da dietro il tendaletto. «Su, monta a bordo» disse lui, pulendo un po’ accigliato una grossa catena da draga con uno straccio scuro. I postumi della sbronza lo facevano sentire in un stato tremendo, e ad essi si aggiungeva la preoccupazione per gli eventi della notte. Carol, lì per lì, non aprì bocca. Lui, allora, smise di strofinare la catena e rimase in attesa che parlasse.
«Non so proprio come cominciare,» esordì finalmente lei, in tono fermo ma garbato «ma bisogna proprio che lo dica prima di salire a bordo.» Poi, schiarendosi la gola, continuò decisa: «Senti, Nick: oggi voglio scendere giù non con te, ma con Troy».
Nick la guardò con aria fra lo stupito e l’interrogativo. Era al sole, e gli faceva male la testa. «Ma Troy…» cominciò.
«So cosa stai per dire» lo interruppe lei. «Che non ha molta esperienza e che quindi un’immersione con lui potrebbe essere pericolosa.» Fissandolo dritto in faccia, continuò: «Ma a me non importa. Ho abbastanza esperienza per tutt’e due, e preferisco scendere giù con lui». Qualche secondo di silenzio, poi: «Ora, se tu non sei d’accordo…».
«Ma no, ma no, va bene» la interruppe, stavolta, lui, sorpreso di scoprirsi offeso e adirato a un tempo. Questa qui è ancona incazzata nera, si disse. E io che pensavo che magari… Si spostò dall’altra parte del tendaletto per terminare l’allestimento della piccola gru da recupero, presa a prestito e installata da lui e Troy durante la notte. L’installazione non aveva presentato grandi problemi, perché quel vecchio materiale era stato da loro già adoperato diverse volte in altre uscite.
Carol montò a bordo e posò la sua copia di foto sulla plancia a lato del timone. «Il tridente, dove sta?» diede la voce a Nick. «Gli vorrei dare un’altra occhiata.»
«Ultimo cassetto a sinistra, sotto gli attrezzi» giunse immediata e secca la risposta. Carol estrasse la sacca grigia, la aprì, e tirò fuori il tridente d’oro, prendendolo per la lunga bacchetta mediana. Strano… Lo reinfilò nella sacca e lo tirò fuori di nuovo, riprendendolo in mano. Ma sì… aveva proprio qualcosa di strano. Lei ricordava quando l’aveva afferrato sotto la sporgenza sottomarina, avvolgendo lentamente la mano attorno alla bacchetta centrale. Ma sì, ci sono, si disse. È più grosso!
Rigirò l’oggetto fra le mani. Ma che mi succede?, pensò. Mi ha dato di volta il cervello? Come può essere più grosso? Lo esaminò accuratamente ancora una volta. Ora le pareva che i denti del tridente si fossero allungati e che fosse aumentato il peso totale. Oddio, ma come può essere?, si domandò.
Estrasse le foto che aveva portato con sé. Quelle del tridente erano state scattate tutte sott’acqua, e… sì, a guardar bene, due piccolissime differenze c’erano proprio: la bacchetta-asse sembrava più grossa e i denti più lunghi!
«Nick!» chiamò vivamente. «Nick, puoi venire un attimo?»
«Sono occupato» rispose una voce seccata dall’altra parte del tendaletto. «È importante?»
«No. Anzi, sì» rispose Carol. «Ma può aspettare finché non avrai finito.»
La sua mente, intanto, era in subbuglio. Ci sono solo due possibilità: è o cambiato o non lo è. Se non lo è, sono io che vedo i fantasmi: perché, più grosso, sembra proprio. Ma se è cambiato, come ha fatto? O c’è riuscito da solo o è stato qualcuno. Ma chi? Nick? Ma come avrebbe potuto lui…?