Arrivò Nick. «Be’?» disse, distante, quasi ostile, chiaramente seccato.
«Be’?» fece Carol con un sorriso, porgendogli il tridente e guardandolo con aria di attesa.
«Be’ cosa?» rispose lui, totalmente confuso da ciò che stava accadendo e ancora in collera per lo scambio di poco prima.
«La vedi la differenza?» continuò Carol, accennando al tridente che lui teneva in mano.
Nick lo rivoltò su e giù come aveva fatto lei in precedenza. Il riflesso del sole sulla superficie dorata gli ferì gli occhi, costringendolo a socchiuderli. Spostato l’oggetto da una mano all’altra ed esaminatolo da angoli diversi, finì per dire: «Credo proprio di non capire. Vuoi forse dirmi che questo coso ha qualcosa di diverso?».
«Precisamente» rispose lei, mentre lui teneva alzato il tridente. «Non lo senti? La bacchetta centrale è più grossa di giovedì, e i denti o elementi della forchetta sono, a una estremità, un po’ più lunghi. E non trovi che sia anche più pesante, nel complesso?»
La testa martellante di dolore, Nick guardò dal tridente a Carol e viceversa. Per lui, l’oggetto non era affatto cambiato. «Ma no,» rispose «a me, ’sto coso, sembra sempre lo stesso.»
«Tu dici così per dispetto» insisté lei, riprendendogli brusca l’oggetto. «Qua, guarda un po’ le foto: controlla la lunghezza della forchetta, qui, rispetto a quella della bacchetta intera, e vedi com’è ora, dal vero. È diversa.»
Nell’atteggiamento generale di Carol c’era qualcosa di decisamente irritante: sembrava dar sempre per scontato che ad aver ragione fosse lei e ad aver torto gli altri! «Ma è assurdo,» gridò quasi Nick «e con tutto il daffare che ho…» Dopo un istante di silenzio, continuò: «E poi, come diavolo potrebbe cambiare? È fatto di metallo, diamine! Sarebbe dunque cresciuto, secondo te? Oh, cazzo…».
Scuotendo la testa, fece per andarsene, ma dopo un paio di passi, si girò, «In ogni caso, non puoi fare affidamento sulle foto» disse in tono più misurato. «Perché quelle sott’acqua distorcono sempre gli oggetti…»
Stava arrivando Troy, col carretto e l’attrezzatura di Carol. Anche senza sentire le parole, capì dall’atteggiamento dei corpi che i suoi due compagni di barca erano di nuovo ai ferri corti.
«Ahiiàhiiàhi,» fece, avvicinandosi «non vi si può lasciar soli un minuto! E qual è il motivo del contendere, stamane, professore?»
«Questa tua amica giornalista dal cervello fino,» rispose Nick, guardando Carol con aria di condiscendenza «persiste nel sostenere che il nostro tridente ha cambiato forma. Da un giorno all’altro, evidentemente, sebbene finora non mi abbia saputo spiegare come. Ti spiacerebbe — visto che non mi crede — spiegarle l’indice di rifrazione o come altro si chiama ciò che confonde le riprese sott’acqua?»
«Ma è cambiato, davvero!» esclamò Carol, appellandosi a Troy. «Ricordo chiaramente come sembrava al tatto quando l’ho trovato, e adesso sembra diverso.»
Troy stava scaricando il carretto e piazzando sulla Florida Queen l’apparato del telescopio oceanico. «Be’, angelo,» disse, dopo essersi fermato per controllare il tridente che lei gli porgeva a due mani «io non saprei dire se è cambiato o no, però posso dirti una cosa. Quando l’hai trovato, eri molto agitata e stavi sott’acqua: e io, tenendo conto di una combinazione del genere, non mi fiderei, a distanza, delle sensazioni tattili suggeritemi dalla memoria.»
Carol guardò i due uomini, e stava per riprendere la discussione, quando Nick cambiò bruscamente argomento. «Lo sapeva, signor Jefferson, che la nostra cliente signorina Dawson ha richiesto i suoi servigi come compagno d’immersione per oggi?» E concluse, asprigno: «Oggi, infatti, la signorina non gradisce immergersi con me».
Troy guardò Carol con sorpresa. «Molto gentile, angelo,» disse piano «ma il vero esperto è Nick. Io sono soltanto poco più di un principiante.»
«Lo so» rispose brusca Carol, ancora furente per l’esito della conversazione precedente. «Ma voglio scendere con qualcuno di cui possa fidarmi. Con qualcuno capace di comportarsi responsabilmente. E, d’immersioni, m’intendo abbastanza per tutt’e due.»
Nick le lanciò un’occhiataccia, si voltò e, allontanandosi — incazzato nero, come avrebbe detto lui — disse: «Forza, Jefferson, ho già detto a Miss Arroganza che può fare come le garba. Per stavolta. Prepariamo dunque la barca e finiamo di ripiazzare quel suo coso telescopesco».
«Mio padre ha finito per divorziare da mia madre quando avevo dieci anni» stava dicendo Carol a Troy. Sedevano insieme nelle sdraio a prua. Dopo aver ripassato un paio di volte le procedure d’immersione, Carol aveva tirato in ballo la sua prima esperienza di uscite in barca, un compleanno passato a sei anni col padre a bordo di un peschereccio, e così, molto naturalmente, era venuta a discutere con Troy delle rispettive infanzie. «Quella rottura è stata tremenda» continuò Carol, passando a Troy la lattina di Coca-Cola. «Secondo me, in un certo senso sei stato forse più fortunato tu a non aver mai conosciuto tuo padre.»
«Ne dubito» replicò serio lui. «Perché, fin da piccolissimo, ho sofferto del fatto che alcuni bambini avessero due genitori. Mio fratello Jamie ha fatto del suo meglio, si capisce, ma, più di tanto, non poteva fare, e io ho sempre scelto per amici dei ragazzi che avessero un padre. Apposta.» Ridendo, continuò: «Ricordo un ragazzino nero nero che si chiamava Willie Adams. Il padre lui ce l’aveva sì, ma per la famiglia era piuttosto un imbarazzo, perché era anziano, sui sessanta, e, invece di lavorare, passava le giornate seduto sulla sedia a dondolo della veranda a bere birra.
«Ogni volta che andavo a casa di Willie per giocare, trovavo qualche scusa per sedere un po’ di tempo sulla veranda accanto al signor Adams. Willie, allora, cincischiava nervoso, incapace di capire perché mai volessi ascoltare le vecchie storie, secondo lui barbose, che raccontava suo padre. Il signor Adam, infatti aveva partecipato alla guerra di Corea e amava raccontare dei suoi amici, delle battaglie e, soprattutto, delle coreane e dei loro “trucchetti”, come li chiamava.
«E si capiva subito quando stava per raccontare una delle sue storie, perché cominciava a fissare nel vuoto, come in contemplazione di qualcosa di assai remoto, e poi diceva, più che altro a se stesso: “Giaggiaggiaggià, la verità è questa qua”. Dopodiché si metteva a recitare la storia come se la leggesse su un libro. “Avevamo ricacciato i coreani fino allo Yalu, e il nostro comandante di battaglione ci disse che erano pronti ad arrendersi” diceva, per esempio. “Noi, tutti contenti, parlavamo di quello che ciascuno avrebbe fatto non appena tornato negli Stati. Ma poi la grande orda gialla calò dalla Cina…”»
Troy si arrestò, lo sguardo rivolto all’oceano. A Carol riusciva facile vederlo ragazzino, seduto sulla veranda col suo imbarazzato amico Willie ad ascoltare i racconti di un uomo che viveva irrimediabilmente nel passato, ma che, per Troy, rappresentava il padre da lui mai avuto. Si chinò a sfiorargli il braccio. «È un bel quadretto» disse. «E forse, tu non ti sei mai reso conto di quanto rendessi felice quell’uomo con lo stare ad ascoltarne i racconti.»
Dall’altra parte del tendaletto, Nick Williams sedeva per conto proprio in un’altra sdraio, intento alla lettura di Madame Bovary e cercando invano di ignorare sia i postumi della sbronza sia i brani di conversazione che non poteva fare a meno di udire. Avendo programmato il sistema di navigazione a tornare automaticamente al luogo d’immersione del giovedì, era in pratica libero da ogni attività di pilotaggio. Quasi certamente, avrebbe anche gradito partecipare alla conversazione, ma, dopo lo scontro con Carol, in cui aveva avuto l’impressione che lei non volesse aver niente a che fare con lui, non gli pareva proprio il caso di farsi avanti. Ora s’imponeva che lui la ignorasse, o lei l’avrebbe giudicato un perdiballe come tanti.