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«Grazie, papà.» Hap montò in macchina e Winters gli chiuse la portiera alle spalle. Continuarono a salutarsi finché la Pontiac non fu sulla strada. Mentre si allontanava, Winters si disse. Bisogna che passi più tempo con lui. È nel momento in cui ha bisogno di me. Se non lo faccio, presto sarà troppo tardi.

Si girò e tornò in casa. Al frigorifero, si arrestò per versarsi un bicchiere di succo d’arancia. Lo bevve lasciando pigramente correre lo sguardo per la cucina. Betty aveva già sparecchiato e infilato nella lavastoviglie i piatti della prima colazione, strofinato per bene i ripiani da lavoro, e posato sul tavolo, ripiegato in bell’ordine, il giornale. La cucina era linda, ordinata. Come lei, cui faceva orrore ogni specie di disordine. Gli venne in mente una mattina di tanto tempo addietro, quando Hap era ancora in fasce e abitavano a Norfolk, in Virginia. Nel battere esuberante sul tavolo di cucina, il piccolo aveva improvvisamente allargato le braccia, scagliando a terra la tazzina da caffè di Betty e il bricco della panna, che si erano rotti entrambi schizzando mezza cucina. Betty aveva interrotto di colpo la colazione, e, quando si era rimessa alle sue uova strapazzate, né il pavimento, né l’armadietto, né il cesto dei rifiuti (versati i cocci nel sacchetto al suo interno, aveva infatti portato il sacchetto direttamente ai bidoni esterni) recavano più la minima traccia dell’avvenuto incidente.

Immediatamente a destra del frigorifero, appesa alla parete, una placchetta scritta in semplici caratteri a mano diceva: «Poiché Iddio amò tanto il mondo, che diede il figlio Suo unigenito, affinché chiunque creda in Lui abbia vita eterna… Giovanni 3, 16». Lui, quella placca, la vedeva ogni giorno, ma erano mesi, anzi forse anni, che non ne leggeva le parole. Quella domenica mattina, le lesse e ne fu commosso. Pensò al Dio di Betty, un Dio assai simile a quello da lui stesso venerato durante l’infanzia e l’adolescenza nell’Indiana: un vecchio quieto, calmo, savio, che, seduto in cielo da qualche parte, osservava ogni cosa, sapeva ogni cosa, e attendeva di ricevere e rispondere alle preghiere degli uomini. Era un’immagine tanto semplice e bella! «Padre nostro, che sei nei cieli,» recitò, ricordando le centinaia, forse migliaia di volte che aveva pregato in chiesa «sia benedetto il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, così in cielo come in terra…»

E la tua volontà nei miei confronti, quale sarebbe, vecchio?, pensò, leggermente sorpreso della propria irriverenza. Da otto anni mi lasci andare alla deriva. Mi ignori. Mi sottoponi a prova come Giobbe. O mi punisci, magari. Andò a sedere al tavolo di cucina e bevve un altro sorso di succo d’arancia. Ma mi avrai perdonato? Non so ancora. Mai una volta, in tutto questo tempo, mi hai dato un segno preciso. Nonostante le mie preghiere e le mie lacrime. E pensare che una volta, subito dopo la Libia, mi sono detto che forse…

Si rivide mezzo assopito sulla spiaggia, steso di schiena con gli occhi chiusi su un grande asciugamano morbido. Di lontano gli giungeva il fruscio della risacca misto a voci di bimbi, e ogni tanto la voce di Hap o di Betty. Il sole estivo era caldo e rilassante. A un tratto, sotto le palpebre gli danzò una luce. Aprì gli occhi. Fra il bagliore del sole e un riflesso metallico che gli arrivava dritto, non riusciva a vedere granché. Si fece allora schermo con una mano. In piedi accanto a lui, intenta a fissarlo, c’era una bimbetta di forse un anno, e il riflesso proveniva dal lungo pettine metallico che portava infisso nei lunghi capelli.

Chiuse gli occhi e li riaprì. Ora la vedeva meglio. Aveva inclinato un po’ la testa, sicché il riflesso era svanito, ma continuava a fissarlo inespressiva. Aveva addosso solo dei pannolini, e si vedeva che era straniera. Araba, forse, aveva pensato sul momento, osservandone gli occhi marrone-scuro foggiati a mandorla. La piccola non si mosse né aprì bocca: continuò solo a fissarlo curiosa, imperterrita, indifferente in apparenza a ciò che lui facesse o non facesse.

«Ciao,» disse piano lui «chi sei?»

La piccola araba non diede segno di aver sentito. Dopo qualche secondo, però, gli puntò improvvisamente contro un dito assumendo un’aria stizzita. Lui si scosse e balzò seduto. Il repentino movimento spaventò la bimba, che cominciò a piangere. Lui allungò le braccia a prenderla, ma lei si ritrasse, scivolò, perse l’equilibrio, e cadde sulla sabbia. Nel cadere, la testa batté su qualcosa di acuminato, e subito si vide un rivolo di sangue scenderle sulla spalla. Spaventata sia dalla caduta sia dalla vista del sangue, la piccola cominciò a strillare.

Lui le si chinò sopra, combattendo il suo stesso panico alla vista della sabbia macchiata di sangue. Qualcosa d’irriconosciuto gli balenò per la mente, e decise di raccogliere la piccola araba per consolarla. Lei si divincolò violentemente, con lo spericolato abbandono e la sorprendente forza dei lattanti, e riuscì a liberarsi. Ma ricadde sul fianco, spruzzando di macchioline rosse la sabbia chiara. Completamente isterica, ora il volto soffuso di spavento e stizza, piangeva così forte da mozzarsi il respiro. E di nuovo gli puntò addosso il dito.

Nel giro di qualche secondo, calarono dal cielo un paio di braccia marrone-scuro a sollevarla. Per la prima volta, lui notò la presenza tutt’intorno di altre persone, di mucchi di persone. La bimbetta era stata raccolta da un uomo che doveva essere il padre: un arabo tozzo sui venticinque anni, in costume da bagno azzurro-brillante. Ora reggeva la piccola con fare protettivo, con l’aria di aspettarsi uno scontro, e consolava la giovane moglie disperata che andava mescolando i suoi singhiozzi ai frenetici strilli della bimba. Entrambi i genitori, intanto, fissavano lui con aria accusatrice, mentre la madre tamponava la ferita della figlioletta con un asciugamano.

«Io non volevo farle del male» disse lui, rendendosi conto, già nel dirle, che queste parole sarebbero state fraintese. «È caduta e ha battuto la testa su qualcosa e io…» La coppia araba arretrò lentamente. Lui si rivolse agli altri, alla dozzina di persone accorse in aiuto agli strilli della piccina, e constatò che anche loro lo guardavano strano. «Io non volevo farle del male» ripeté con forza. «Stavo solo…» Si arrestò. Dal viso gli gocciolavano sulla sabbia delle grosse lacrime. O mio Dio, sto piangendo! Per forza questa gente…

Udì un altro grido. Betty e Hap, apparentemente, gli erano arrivati alle spalle mentre la coppia araba arretrava con la figlioletta sanguinante. Ora, alla vista del sangue sulle mani del padre, il cinquenne Hap era esploso in lacrime a sua volta, nascondendo il viso contro il fianco della madre. E singhiozzava, e singhiozzava… Lui si guardò le mani, poi guardò gli astanti. D’impulso, si chinò e tentò di pulirle nella sabbia. Il suono dei singhiozzi del figlio punteggiò il suo vano tentativo di pulirsi dal sangue.

Mentre stava in ginocchio sulla sabbia, alzò gli occhi a guardare Betty, per la prima volta dall’inizio dell’episodio. E vide sul suo volto un’espressione d’orrore puro. La implorò con lo sguardo di sostenerlo: ma quegli occhi si velarono, e lei cadde a sua volta in ginocchio — compostamente, in modo da non turbare il figlio in lacrime che le si stringeva al fianco. Poi cominciò a pregare. «Signore Iddio» disse a occhi chiusi.

Gli astanti a poco a poco si dispersero, e molti andarono dalla famiglia araba a offrire aiuto. Lui rimase in ginocchio sulla sabbia, sconvolto da quanto aveva fatto. Finalmente, Betty si alzò. «Su, su,» disse, consolando Hap «andrà tutto bene, vedrai.» Poi, senza un’altra parola, raccolse metodicamente borsa da spiaggia e asciugamani e si avviò verso il parcheggio. Lui le andò dietro.