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Carol si sfilò anch’essa lentamente maschera e manometro. Aveva un’aria intontita. Si guardarono intorno. Tra loro e il soffitto c’erano circa tre metri, e le dimensioni della sala equivalevano più o meno a quelle di un ampio soggiorno di una bella casa suburbana. Del tutto insolite erano invece le pareti, le quali, anziché essere piane e perpendicolari al pavimento, erano costituite da ampie superfici curve, alcune concave, altre convesse, dipinte alternatamente in rosso e in azzurro. Senza riflettere, Carol cominciò a muoversi qua e là — con lentezza, naturalmente, dato l’ingombrante equipaggiamento subacqueo — e a scattare fotografie.

«Un momento solo, signorina Dawson» disse Troy, con un mezzo sorriso, sfilandosi le pinne per seguirla. «Senti, angelo: prima di fare altre foto, vorresti essere tanto gentile da spiegare a questo sempliciotto nero dove cazzo si trova in questo momento? Voglio dire: a me risultava di esser sceso sotto la barca a cercare un buco. Ora, il buco mi pare di averlo trovato, ma confesso che è un tantino seccante andare in visita da qualcuno che non si sa chi sia. Perciò, non potresti piantarla un momento col giornalismo e spiegarmi come mai sei così calma?»

Carol era davanti a uno dei pannelli-parete concavi di colore azzurro. Nella struttura della parete, più o meno ad altezza d’occhio, si vedevano due o tre tacche a forma di cerchi o ellissi. «Secondo te, questo cos’è?» disse Carol a voce alta, ma col tono di una persona lontana le mille miglia.

«Carol, piantala!» gridò quasi Troy. «Piantala subito! Non possiamo stare qui a spassarcela come se facessimo una tipica visita pomeridiana a una casa modello. Dobbiamo parlare. Dove siamo? Come facciamo a uscire e a tornarcene a casa? “Casa” ho detto: hai presente cos’è? Garantito che non sta sotto l’oceano a due ore dalla costa!» La afferrò per le spalle e la scosse.

Carol cominciò a uscire dal suo intontimento. Si guardò lentamente attorno, poi guardò lui e disse: «Gesù… E vacca merda». Troy vide che tremava e fece un passo avanti per abbracciarla. Lei gli fece segno di non voler esser toccata. «Ora sto bene. O quasi, almeno.» Respirò a fondo un paio di volte, e sorrise. «Quello che è certo è che ho per le mani una bomba di servizio.» Tornò a guardarsi attorno, poi, corrugando la fronte: «Ma, Troy, qui dentro, com’è che ci siamo arrivati? Non vedo né porte né aperture né niente».

«Buona domanda,» rispose Troy «anzi, ottima, e io avrei anche una risposta. Secondo me, queste stravaganti pareti colorate sono mobili, perché credo di averle viste unirsi mentre stavo sott’acqua. Non ci resta quindi che spingerle da parte e trovare l’uscita.» Così dicendo, tentò d’infilare le mani in una fessura di connessione fra una sezione azzurra e una rossa, ma senza riuscirci.

Carol cominciò ad aggirarsi per la sala nell’ingombrante muta subacquea, e, dopo qualche passo, si fermò e si tolse tutto meno il costume da bagno. Poi si dedicò a esaminare e fotografare ogni singolo pannello della sala. Troy si tolse a sua volta bombole e muta lasciandole cadere, con un clang, sul pavimento di metallo leggero, e rimase a osservarla per un minuto.

«Carol, oh Carol,» disse quindi, sforzandosi di esibire il suo gran sorriso «vorresti dirmi, per piacere, che cavolo fai? Non per insistere, angelo, ma magari ti potrei aiutare.»

«Sto cercando qualcosa che dica “Mangiami” o “Bevimi” replicò nervosa lei, dall’altra parte della sala.

«Già, si capisce, più ovvio di così…» borbottò Troy.

«Ricordi Alice nel paese delle meraviglie?» chiese Carol. Aveva trovato una lunga e sottile protuberanza, che pareva una maniglia protesa dal centro di uno dei pannelli rossi. Gli fece segno di accostarsi. Insieme, cercarono quindi di girarla. Niente. Carol si stizzì.

Troy, vedendola scrutare freneticamente il resto della sala, credette di scorgere in lei un primo segnale di panico. Si drizzò allora sull’attenti, in stile militare e disse: «Parla duramente al tuo bambino… E picchialo quando starnuta… Lo fa solo per seccare il prossimo… Perché sa che irrita».

Dal corruccio di Carol, capì che lei pensava che gli avesse momentaneamente dato di volta il cervello. «Era la Regina di Cuori, credo,» rise «ma non ne sono sicuro. So solo che me la sono dovuta imparare per una recita in quinta elementare.» Ormai distesa, Carol rideva anch’essa nonostante la paura. Alzandosi sulla punta dei piedi, lo baciò sulla guancia. «Piano, vacci piano…» disse lui, con un brillìo ironico negli occhi. «Noi neri ci eccitiamo facilmente, sai!»

Prendendolo a braccetto, Carol terminò con lui il giro della sala, esaminando le pareti alla ricerca di un qualunque segno di uscita. I motteggi di Troy la misero a suo agio. «In terza media, un mio insegnante nero diceva che Alice era una storia razzista. E lo era, secondo lui, per il fatto che Alice seguiva un coniglio bianco, non nero — come mai, per l’appunto, avrebbe fatto una bambina bianca per bene.» Fermandosi davanti a un altro pannello rosso, disse: «Oh guarda: e qui, che c’è?».

Da lontano, il pannello rosso sembrava come tutti gli altri. Da vicino, invece, ossia a un metro di distanza, la pittura rossa si presentava retinata di puntolini bianchi disposti secondo i motivi più diversi. Una serie di sezioni rettangolari contigue, delineate da punti bianchi, rilevava il centro del pannello. «Ehi, angelo,» disse Troy, pigiando a caso sulle sezioni «non ti pare che somigli parecchio a una tastiera di elaboratore?» Carol si unì a lui nel pigiare a caso i tasti, e diventò un gioco.

Per quasi un minuto rimasero davanti al pannello a ficcare le dita in ogni sezione punteggiata e a pigiare forte, poi Carol se ne staccò bruscamente e, guardandosi intorno, si avviò decisa ad attraversare la sala. «Ma dov’è che vai?» gridò Troy, mentre lei, ruotando su se stessa per rispondere, per poco non inciampava nell’attrezzatura posata sul pavimento.

«M’è venuta un’idea balzana» rispose Carol. «Chiamalo intuito femminile, se vuoi, o medianico.» Era al pannello rosso della maniglia. La tirò, senza forzare, verso il basso e udì all’istante un cigolìo. Balzò indietro sussultando, e vide il pannello ripiegarsi su di sé verso l’esterno e rivelare un passaggio oscuro largo abbastanza per un autocarro. Troy le venne accanto, e rimase con lei a guardare in quel vuoto.

«Porca vacca…» disse. «Qualcuno si aspetta che c’infiliamo lì dentro, secondo te?»

«Ne sono sicura» assentì Carol.

Lui la guardò stranamente. «E si può sapere come fai ad esserlo?»

«Ma perché è l’unica via d’uscita da qui» ribatté Carol.

Troy lanciò un’ultima occhiata alla misteriosa sala dalle pareti curve e colorate. Le parole di Carol erano di una logica incontrovertibile. Con un profondo sospiro, le prese la mano ed entrò nella nera galleria.

Alle loro spalle vedevano vagamente il piccolo fascio luminoso proiettato dalla sala in cui avevano lasciato l’equipaggiamento subacqueo. All’interno del cunicolo era buio pesto, ciò che imponeva di camminare piano e con cautela. Troy teneva una mano sulla parete e l’altra stretta su quella di Carol. Le pareti tondeggianti riflettevano il rumore del loro respiro affannato, che paura e apprensione costanti rendevano ancor più tale. Camminavano in silenzio. Un paio di volte, Troy fece per cantare qualche verso di una canzone popolare, tanto per tranquillizzarsi, ma Carol lo zittì in entrambe, perché voleva sentire se ci fossero altri rumori.

A un certo punto, gli strinse la mano e si arrestò. «Ascolta» gli sussurrò. Troy trattenne il respiro. Silenzio totale, salvo che per il suono vaghissimo, non identificabile, in lontananza. «Musica» disse Carol. «Mi pare di sentire della musica.»

Troy si tese al massimo per cercare di afferrare quel suono che gli giungeva appena alla soglia dell’udito. Invano. «Ce l’hai dentro la testa, probabilmente» disse, tirandole la mano. «Andiamo.»