Avevano svoltato, sicché la luce alle spalle era sparita. Erano nella galleria da una decina di minuti, e Carol cominciava a perdersi d’animo. «E se non portasse da nessuna parte?» disse.
«Assurdo» si affrettò a rispondere Troy. «È stata costruita da qualcuno con un fine, ed è ovviamente un cunicolo di collegamento.» Poi tacque.
«Qualcuno chi»? chiese Carol, ponendo la domanda che li turbava entrambi dal momento in cui si erano infilati, con apprensione, nelle tenebre della galleria.
«Altra buona domanda» disse Troy, riflettendo un istante prima di rispondere. «La Marina degli Stati Uniti, a mio avviso. Secondo me, siamo in un qualche laboratorio subacqueo segretissimo, di cui nessuno conosce l’esistenza.» Naturalmente, potrebbe anche essere russo, pensò, ma non lo disse per non turbare Carol. Nel qual caso siamo nella merda fin qui. Perché se i russi hanno un grosso laboratorio segreto a così poca distanza da Key West, di sicuro non gradiranno che…
«Troy, guarda,» si agitò Carol «vedo una luce! C’è proprio qualcuno, allora.» La galleria stava per scindersi in due. In capo a una estremità, quella del ramo che svoltava bruscamente a sinistra, si distingueva chiaramente una chiazza luminosa. Sempre tenendosi per mano, Troy e Carol vi puntarono a passo veloce. Troy si sentiva il cuore in tumulto.
Carol entrò nella nuova sala quasi di corsa. Ma non si trattava di una sala, bensì di una cameretta ovale con gli stessi bizzarri pannelli per pareti (salvo che questi erano marroni e bianchi, anziché rossi e azzurri come gli altri). Lei, che si era aspettata di venir trovata, che aveva pensato che la misteriosa avventura fosse ormai vicina alla fine e a una spiegazione generale, rimase là a guardarsi intorno spaventosamente confusa. «Ma questo posto, cos’è?» chiese a Troy. «E come faremo a uscirne?»
Troy stava al centro della camera, la testa piegata al massimo all’indietro a guardare l’ampia volta ad arco del soffitto, nove o dieci metri più in alto. «Càspita,» esclamò «ma è immenso!» La luce soffusa che illuminava la camera proveniva da lastre di materiale semitrasparente — cristalli di vetro, forse — incorporate al soffitto.
I pannelli marroni e bianchi delle pareti erano alti solo tre metri, ma ciò bastava a impedire a Carol e Troy di guardare al di là di essi. Entrambi provavano uno strano senso di libertà e confino a un tempo. Da un lato, prima la galleria, poi la camera stessa, simile a una di bambino in una piccola casa, avevano procurato loro un senso di claustrofobia; dall’altro, l’impressione di spazio offerta dal soffitto da cattedrale aveva di che sollevare il cuore.
«Be’?», fece Carol, un tantino spazientita, dopo aver atteso per un po’ che Troy completasse il suo giro d’ispezione della cameretta. Lui, intanto, notava che i pannelli marroni e bianchi erano curvi sì, ma appena appena, e dunque assai più simili dei precedenti a pareti normali.
«Scusa, angelo, ho scordato la domanda» rispose.
«Ce n’è una sola, signor Jefferson» disse lei, scuotendo la testa. «Ed è la stessa che mi hai fatto tu alla nostra ultima fermata, credo.» Consultò l’orologio. «Entro una quindicina di minuti avremo esaurito il tempo massimo d’aria, e ritengo di non sbagliare nel pensare che il nostro amico Nick si stia già preoccupando. Ma noi continuiamo a non avere idea… Ma che fai?»
Si interruppe alla vista di lui che si chinava a tirare un pomellino infisso in uno dei pannelli bruni d’angolo. «Questi sono cassetti, angelo» disse Troy, mentre la parte inferiore del pannello si staccava di diversi centimetri dalla parete. «Tipo toeletta.» Ne aprì un secondo sopra il primo. «E c’è dentro qualcosa.»
Carol gli si avvicinò per vedere. Allungata la mano nel secondo cassetto da lui aperto, ne estrasse una sfera color ruggine grande all’incirca quanto una palla da tennis. La palla aveva una superficie stranissima: non liscia e regolare, ma striata, soprattutto da una parte, e con minuscoli bozzi, tipo quelli d’un sottaceto, tutt’intorno e accanto alle striature. In alcuni punti presentava anche delle tacche non ben definite. «Io, una cosa così, l’ho già vista. Ma dove?» si chiese Carol esaminando la sfera nella luce soffusa. Poi, dopo qualche secondo di riflessione: «Ci sono!» annunciò, lieta che la memoria l’avesse servita. «Pare tutta il modello di Marte del Museo Nazionale Aerospaziale.»
«Allora io ho la Terra» replicò Troy, mostrandole una sfera quasi del tutto azzurra e grande quanto una palla da softball da lui trovata nel cassetto superiore. Nella luce smorzata della camera, rimasero entrambi a contemplare le due sfere che tenevano in mano. «Ma cazzo di un cazzo!» sbottò finalmente Troy, ruotando su se stesso e guardando il soffitto. «Chiunque voi siate, venite fuori e identificatevi, perché noi ne abbiamo abbastanza!»
Un’eco parziale della sua voce, ma nient’altro. Smaniosa di far qualcosa, pur che fosse, Carol continuò l’ispezione della camera e trovò un’altra serie di tre cassetti in un pannello marrone poco discosto. Mentre ne apriva uno, Troy scagliò per gioco la palla azzurra contro quella che sembrava un’uscita — un’apertura oscura fra pannelli sull’altro lato della camera. La sfera colpì con un tonfo sordo un pannello bianco vicino all’apertura, ricadde, ma, prima che toccasse il pavimento, si sollevò come attirata dall’alto e, arrestatasi al centro della camera a circa un metro e mezzo dal pavimento, cominciò a ruotare.
Spalancando tanto d’occhi, Troy le andò vicino e le passò la mano sopra alla ricerca dei fili che la dovevano sostenere. Non ce n’erano. La sfera rappresentante la Terra continuò a ruotare lentamente, descrivendo un cerchio nell’aria al centro della camera. Troy le diede una spintarella: essa vi rispose, ma, cessato l’effetto della forza, tornò al punto di prima e riprese il suo movimento. Troy si voltò. Carol gli dava la schiena, occupata a cercare invano un’altra serie di cassetti e reggendo sempre Marte nella sinistra.
«Ehi, Carol, ti dispiacerebbe venir qui un momento?» disse lentamente Troy.
«No, vengo» rispose lei prima di voltarsi. «Santo cielo, Troy, questi cassetti sono pieni di ogni sorta di…» Voltatasi, notò la Terra sospesa a mezz’aria al centro della camera. «Bello,» azzardò, aggrottando le ciglia «proprio bello. Non sapevo che fossi anche un mago.» Ma, all’espressione perplessa del viso di Troy, le morirono le parole. Si avvicinò per osservare da vicino.
Per una decina di secondi almeno, rimasero entrambi a contemplare in silenzio il lento ruotare della palla azzurra. Poi Troy prese a Carol la sfera di Marte e la lanciò di rovescio verso il soffitto. Marte salì ad arco e ricadde normalmente — fin quasi a livello del pavimento. Dove, come la sfera azzurra, sviluppò un proprio senso direzionale e motorio, che lo portò a fermarsi a circa un metro e mezzo d’altezza, a cominciare una lenta rotazione, e a rimanere sospeso nell’aria accanto alla sfera azzurra raffigurante la Terra.
Carol afferrò tremante la mano di Troy, poi, dopo un po’, si ricompose. «C’è qualcosa in tutto ciò che mi fa venire la pelle d’oca» disse. «Tutto sommato, preferirei vedermela con un millepiedi che mi chiedesse “Chi sei?”, perché, se non altro, avrei una qualche idea di quello che avrei davanti.»
Troy si voltò e la ricondusse ai cassetti semiaperti. «Una volta, facendo l’autostop, mi sono imbattuto in un vecchio hippie con la barba» cominciò, estraendo una palla da pallacanestro coperta di cinghie e fascette latitudinali varianti dal rosso all’arancio — un Giove, insomma — e lasciandosela con ambe le mani dietro le spalle. Sotto lo sguardo affascinato di Carol, Giove andò a raggiungere le altre due sfere e prese a orbitare attorno a un baricentro vuoto nel bel mezzo della camera.