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«Guidava un vecchio camioncino scassato e fumava uno spinello. Sulle prime abbiamo parlato poco. Lui mi faceva delle domande e io facevo per rispondere, ma, dopo una frase o due, m’interrompeva per dire: “Tu non sai una merda, amico”. E questa era la sua risposta a tutto.»

Nel raccontare la storia, Troy procedeva allo svuotamento metodico di tutte sei i cassetti, gettando al centro della camera ogni oggetto trovato e osservando il comportamento di alcuni di essi come se si trattasse di cose di tutti i giorni. Ciascuna delle nuove sfere ripeté il comportamento delle precedenti, dando origine a un modello quasi completo e funzionante di sistema solare sospeso a un metro e mezzo circa dal pavimento.

«Alla fine mi sono stancato di ’sto gioco e non ho più aperto bocca. Così, abbiamo fatto chilometri e chilometri in silenzio. Era una bella notte chiara, e lui continuava a mettere la testa fuori dal finestrino per osservare le stelle. A un certo punto, dopo aver ritirato dentro la testa per l’ennesima volta, ha acceso un altro spinello e, porgendomelo, ha indicato le stelle dicendo: “Loro, amico, loro sanno”.

«Chilometri dopo, quando sono sceso, lui s’è sporto fino a lasciarmi scorgere l’espressione stralunata degli occhi, e ha sussurrato: “Ricorda, amico: tu non sai una merda: loro, loro sanno”.»

Mentre terminava il racconto, Carol gli venne accanto ed estrasse dal cassetto inferiore due manciate di frammenti minuscoli e un po’ appiccicosi al tatto. Quando li scosse dalle mani, volarono miracolosamente per la camera fino ad agglomerarsi ai sistemi anelliformi di Saturno e Urano. Carol guardò Troy con aria di sacro sgomento.

«Ha una morale, la tua strana storia?» gli chiese. «Confesso che la tranquillità con cui prendi questa dannata faccenda mi lascia di sasso. Io, per me, se non sono ancora impazzita del tutto, poco ci manca.»

Troy indicò i minuscoli pianeti fluttuanti nell’aria. «Ciò che stiamo vedendo non ha spiegazione in termini di esperienza umana normale. Quindi, o siamo tutt’e due morti, o siamo stati trasferiti in una dimensione nuova, o siamo oggetto di giochetti psichici da parte di qualcuno.» Poi, sorridendole: «Se proprio vuoi saperlo, angelo, ho anch’io una fifa da cagarmi addosso. Ma, come quel vecchio suonato di un hippie, continuo a ripetermi che, a sapere, sono loro. E questo mi dà un certo conforto».

Udirono un lieve fruscìo come di scivolamento, e, da una apertura che andava formandosi tra due pannelli, uno marrone e uno bianco immediatamente a destra dell’ingresso della galleria, sgorgò nella camera un fascio di luce vivissima. Carol si ritrasse d’impulso, coprendosi gli occhi per un istante. Troy balzò anch’egli all’indietro, dapprima, ma poi sbirciò di tra le dita che gli facevano schermo. I pannelli continuarono a ritrarsi sino a formare un’apertura di circa mezzo metro, mentre la camera si empiva di luce. Dall’apertura avanzò lenta una grossa palla illuminata. «Ecco qua il Sol… Tàtata, tùu… Ecco qua il Sol» cantò Troy con trepidazione. «E tutto va ben… Tutto va ben…» Canticchiò qualche altro verso mentre Carol apriva gli occhi.

«Oggesù!» disse lei. La sfera luminosa, grande quanto un pallone da spiaggia, andò a collocarsi nel posto che le competeva nel planetario e inondò la camera intera dei suoi raggi, mentre i pianeti ruotanti e orbitanti ne riflettevano la luce dalla parte esposta. Carol guardava esterrefatta, il viso solcato di lacrime silenziose. Sconvolta, non riusciva a parlare né a muoversi.

Anche Troy era spaventato, ma non al punto da avere impedite le facoltà di reazione. Un momento dopo, scorse tuttavia nell’apertura una cosa che lo fece sussultare di terrore. Il cuore in tumulto mentre sbatteva, apriva, socchiudeva gli occhi per accertarsi che non si trattasse di un’illusione ottica dovuta alla presenza, fra lui e la cosa, della vivida luce del modellino del Sole, si volse d’istinto a proteggere Carol, facendole schermo perché non vedesse.

«Non guardare subito,» le sussurrò «abbiamo un visitatore.»

«Che… che cosa?» fece Carol, confusa e ancora stordita.

Tenendola per le braccia, Troy si spostò con lei di qualche passo verso destra. Si guardò alle spalle, e vide che la cosa era sempre là.

«Vicino all’uscita» disse, voltandosi, incapace di nascondere più a lungo il panico.

Gli occhi di Carol colsero la fonte del terrore di Troy. Che cosa fosse, lei non avrebbe saputo dire: vedeva solo che si trattava di un qualcosa di grosso, di chiaramente minaccioso, e di assolutamente diverso da qualunque cosa lei avesse mai visto o immaginato. Ed era entrato nella camera. Udì le urla frenetiche, incoerenti, di Troy, ma senza afferrarne il significato. Guardò di nuovo la cosa, e il cervello le si ribellò. Apri la bocca per urlare, ma, lì per lì, non ne uscì suono. Cadde in ginocchio sul pavimento. Udì uno strepito di urla dentro di sé, ma che sembravano lontane, lontanissime. Il cervello le diceva «Stai gridando» ma, per qualche ragione, sembrava impossibile — doveva essere qualcun altro.

La cosa le stava venendo incontro. Il corpo vero e proprio era alto sui due metri e mezzo, in quel momento, ma continuava a cambiare forma e mole nel suo ondulare per la camera. Qualunque cosa fosse, sia lei che Troy potevano vedervi non solo attraverso, ma addirittura attraverso parti della sua struttura. Una membrana esterna trasparente appariva delimitare e avvolgere un subbuglio permanente di materia fluida, in gran parte chiara, e fluente e rifluente a ogni movimento. La cosa avanzava alla maniera di un’ameba, come della materia semplicemente diretta nella direzione giusta, ma a una velocità sorprendente. Dietro tutte le superfici esterne c’era una massa sparsa di puntini neri, schizzanti in ogni direzione in quello che appariva essere un controllo delle riconfigurazioni continue che davano movimento al tutto. Inserita presso il centro del corpo primario era anche una mezza dozzina di pezzi di materia grigiastra, opaca — oggetti sui trenta centimetri per trenta.

L’aspetto più terrificante della cosa non era tuttavia il corpo primario in sé, bensì la spaventosa batteria di dozzine di appendici, in gran parte lunghe e di forma affilata, che spiccavano sulle parti superiori e che apparivano infisse nel corpo primario alla maniera di oggetti aguzzi in un puntaspilli. La grande struttura chiara e amebiforme sembrava un versatile sistema di trasporto in grado di trasportare praticamente qualunque cosa, e il cui carico utile fosse costituito, almeno per tale uso, dalla famiglia di bacchette in attività costante che spuntavano dalle parti superiori; bacchette tanto più minacciose, in quanto i loro effettori terminali somigliavano ad aghi, mani, spazzole, denti, e anche a spade e armi da fuoco. Dentro di sé, Carol si vedeva insomma attaccata da un super carro armato in grado di cambiar mole in un baleno e di muoversi, su comando di fili invisibili, in ogni direzione.

Troy si tirò da parte, tentando di calmare la paura e di ritrovare il respiro, ma sempre tenendo d’occhio l’avanzata della cosa, che puntava diritta su Carol. D’un tratto, l’appendice più lunga, uno strumento rossastro di plastica che si biforcava in due corti rebbi a circa trenta centimetri dal corpo primario, si prolungò in avanti di un altro metro, per bloccarsi a soli quindici centimetri dagli occhi di Carol. Con un urlo, Carol la scostò, ma essa tornò di scatto nella posizione precedente. Troy, allora, afferrò il Giove sospeso a mezz’aria e lo scagliò, con ogni sua forza, contro il centro della cosa. All’impatto, la massa informe arretrò, ritraendo immediatamente le appendici; ma, istantaneamente riconfigurandosi, dispose la sua materia in modo da lasciarsi attraversare dalla palla. E, prima di ricadere sul pavimento dall’altra parte, Giove si sollevò in aria e tornò al proprio posto nel sistema solare modello.

La cosa, intanto, aveva arrestato la sua avanzata verso Carol, e, seduta al centro della camera, lasciava che le sue appendici turbinassero come fruste in ogni direzione. Sembrava intenta a meditare una decisione. Troy, allora, trovò il coraggio di afferrare una bacchetta dall’effettore terminale foggiato a spazzola e tentò di spiccarla dalla struttura principale. Istantaneamente, al giunto che la collegava al corpo affluì materiale trasparente di rafforzamento. L’atto di Troy provocò però un cambio manifesto nel comportamento della cosa, che passò a lui come obiettivo. Muovendosi con la massima cautela, e sorvegliando l’inseguitrice con occhio attento a un’altra eventuale estensione repentina dello strumento rosso dai due rebbi, Troy si portò piano piano verso l’apertura. Mentre la cosa puntava su di lui, segnalò a Carol di stare indietro, poi scattò verso l’apertura, inciampando leggermente, nel varcarla, in una bacchetta prolungata.