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La cosa non esitò. Con sorprendente celerità, si fece bassa e tozza, espandendo sul pavimento un massimo di superficie esposta e mettendosi così in grado di muoversi con maggior rapidità ed efficacia. Il gruppo di appendici spiegate raccolto in una configurazione compatta da spostamento, si lanciò verso l’apertura.

Carol fu lasciata sola e in ginocchio sul pavimento, il sistema solare modello sopra di lei e sulla destra. Per oltre un minuto, rimase immobile a contemplare distrattamente i pianeti ruotanti e ad ascoltare l’occasionale trapestìo di Troy in lontananza. Poi, dopo un lungo silenzio, si alzò e fece un certo numero di passi, lenti e brevi, per accertarsi di non aver subito danni fisici. Quindi andò all’apertura fra i pannelli e vide che dava su un corridoio che correva a destra e a sinistra.

Troy, nell’uscire, aveva preso a destra. Ricordandosi della macchina fotografica, Carol rientrò per scattare qualche rapida foto ai pianeti sospesi, poi seguì la direzione di Troy prendendo anch’essa a destra. Discese lentamente il nero corridoio, voltandosi spesso per orientarsi sulla luce della camera che aveva appena lasciato. Il soffitto, qui, era appena sopra la testa. Più avanti, il corridoio si divideva in due, e le biforcazioni erano immerse entrambe nel buio. Si mise nuovamente in ascolto, e di nuovo le parve di udire una musica. Ma, di dove provenisse, proprio non avrebbe saputo dire.

Stavolta scelse la biforcazione sinistra, che, ben presto, si restrinse e parve tornare a cerchio nella direzione da cui era partita. E stava già per voltarsi e tornare sui propri passi, quando udì distintamente due rumori — una specie di tonfo sordo seguito da un grattamento — più avanti sulla destra. Respirando lentamente e combattendo la paura, avanzò nel buio. Dopo una ventina di passi giunse a una porta bassa, e aperta, sulla destra. Chinandosi leggermente, diede uno sguardo all’interno, e vide, nella luce smorzata, forme e strutture insolite in un’altra cameretta dalle pareti costituite dagli ormai familiari pannelli curvi e colorati. Sgattaiolò dentro e si drizzò.

Non appena i suoi piedi toccarono il pavimento della camera, in alcuni pannelli delle pareti si accesero luci soffuse, e risuonarono due o tre note di uno strumento musicale. Lo strumento sembrava un organo, e stava apparentemente lontano, in un’altra parte di quella specie di cattedrale, le cui ampie volte ad arco tornavano a vedersi sopra la cameretta. Si fermò, sorpresa, e rimase immobile svariati secondi. Poi, sempre immobile, scrutò metodicamente il nuovo ambiente.

Questa camera aveva pannelli vivacissimi, alternatamente porpora e oro, ed estremamente curvi, e conteneva tre oggetti dalla funzione sconosciuta. Uno sembrava uno scrittoio; il secondo, una lunga panca bassa, larga a un capo e rastremata in punta all’altro; e il terzo un altissimo palo telefonico. Cima e base del palo erano collegate da sedici fili sottili, tesi verso l’esterno e avvolti attorno a un ampio anello a circa un terzo dell’altezza.

Carol poteva camminare tra i fili. L’anello, fatto di materiale metallico dorato, stava un mezzo metro sopra la sua testa, quasi a livello dell’estremità superiore dei pannelli-parete. Afferrato uno dei fili, lo sentì vibrare ed emettere un suono attutito, confuso. Arretrò allora di un passo e provò a tirarlo: echeggiò una nota molto lirica, come di una grande arpa. Sono dentro uno strumento musicale, constatò. Ma come suonarlo?

Resasi conto che mai avrebbe potuto suonare quell’arpa se doveva muoverle attorno per pizzicare le corde a una a una, si aggirò per qualche minuto alla vana ricerca d’un equivalente di archetto.

Andò allo scrittoio, che le si rivelò in breve essere un altro strumento musicale, e molto più promettente dell’arpa. Presentava delle tacche, sessantaquattro in tutto, disposte su otto file e in otto colonne. Ogni tacca, o tasto, produceva, al tocco, un suono diverso. Sebbene da piccola avesse preso cinque anni di lezioni di piano, sulle prime le riuscì difficile suonare anche solo Stille Nacht, su quel misterioso scrittoio. Doveva infatti correlare i suoni prodotti dal tocco dei singoli tasti alle note e agli accordi che rammentava dall’infanzia. Nell’insegnare a se stessa il funzionamento dello strumento, si fermò spesso ad ascoltarne il suono delicato, cristallino, che le ricordava più di tutto quello dello xilofono.

Rimase allo scrittoio parecchi minuti, riuscendo finalmente a suonare un intero verso di Stille Nacht senza compiere un solo errore. Sorrise di compiacimento, il che le distese momentaneamente i nervi. Durante tale interludio, il grande organo lontano (da lei udito brevemente all’entrata nella camera e la cui posizione era ora situabile in un qualunque punto delle parti superiori dell’area-cattedrale) cominciò d’improvviso a suonare. Carol si sentì venire la pelle d’oca, un po’ per la bellezza della musica, un po’ perché essa veniva a ricordarle in quale bizzarro mondo si trovasse. Ma cos’è che suona, quell’organo?, pensò. Sembra un’ouverture. Ascoltò per qualche secondo. Ma… è un’introduzione a Stille Nacht! E quanto creativa, anche!

Al suono dell’organo se ne unirono numerosi altri, ciascuno emanante da qualche punto della volta. E tutti gli strumenti presero a suonare insieme una complessa versione della Stille Nacht da lei tanto faticosamente battuta sullo scrittoio qualche momento prima. La bella musica empì la cattedrale. Carol guardò in alto e poi, chiusi gli occhi, cominciò a girare su se stessa e attorno in una piccola danza. Quando li riaprì, si raggelò di terrore: davanti a ciascun occhio stava, a non più di due centimetri e mezzo, quello che pareva un minuscolo strumento ottico.

Mentre lei suonava allo scrittoio, la cosa le era giunta senza rumore alle spalle e, spiegate le appendici, aveva pazientemente atteso che lei si voltasse. Ora stava circa alla sua altezza, e la parte più vicina del corpo primario trasparente non distava più di un braccio. Mentre Carol rimaneva immobile, senza quasi ardire di respirare, cinque o sei appendici si prolungarono a toccarla. Un piccolo strumento escavatore le graffiò un pezzetto di pelle dalla spalla nuda. La spada le tagliò una ciocca di capelli. Una minuscola corda attaccata a una delle bacchette lunghe le si avvolse attorno al polso. Una serie di setole grande quanto la testa di uno spazzolino da denti le percorse il torace, solleticandole i capezzoli da sopra il costume da bagno e incrociandosi sulla macchina fotografica da lei portata al collo. In preda a una folla di sensazioni simultanee che le fecero perdere coscienza dell’origine di ogni stimolo, chiuse gli occhi e tentò di pensare ad altro. Un ago la punse alla fronte.

Il tutto durò pochissimo, meno di un minuto. La cosa ritrasse le appendici, arretrò di un mezzo metro, e rimase a osservarla. Carol non si mosse. Dopo altri venti secondi, le appendici vennero raccolte nella posizione in cui lo erano state prima dell’inseguimento di Troy, e la cosa uscì dalla camera.

Carol tese l’orecchio. Di nuovo silenzio totale. Staccandosi dallo scrittoio, si sforzò di organizzare i pensieri. Dopo circa un minuto, i pannelli-parete porpora e oro cominciarono a ritrarsi da soli, a ripiegarsi ad impilarsi in mucchietti; dopodiché crollarono, suddividendo automaticamente i pezzi in pile ordinate, i corridoi circostanti alla camera musicale. Carol si trovò così in un immenso salone sovrastato dalle volte da cattedrale. La sinistra antagonista dalle appendici simile a fruste infilava intanto una porta laterale a un otto metri di distanza, e svaniva rapidamente alla vista.