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Carol si stava calmando, ma le lacrime non erano cessate. Rivolse a Nick uno sguardo implorante, e disse: «Sarebbe stato molto più facile se avessi potuto piangere una volta per sempre. Invece no. Restava l’incertezza e, quindi, la speranza. E così il mio cuore di bimba si spezzava ogni giorno, ogni maledetto giorno». Si asciugò gli occhi una volta di più. Poi, guardando l’oceano, gridò con quanto fiato aveva in gola: «Perciò voglio sapere che cos’è accaduto a Troy — adesso o al più presto! Non fatemi aspettare in eterno: non posso!».

Tornò a voltarsi verso Nick, e lui aprì le braccia. Senza una parola, lei gli posò la guancia sul petto, e lui la strinse a sé.

6

Nick mise la mano sopra la porta della casa di Troy e trovò la chiave sulla mensola. Dopo aver ribussato, aprì piano piano. «Ehi di casa, c’è nessuno?» gridò.

Carol lo seguì nel soggiorno. «Non sapevo che foste tanto amici» disse, dopo uno sguardo divertito alla variegata collezione di mobili e arredi di Troy. «Io, la mia chiave, non credo di aver detto a nessuno dove la tengo.»

Non trovando in soggiorno quello che cercava, Nick uscì in corridoio e, superata la camera da letto grande che fungeva da deposito di apparecchiature elettroniche, entrò nella camera da letto piccola, quella in cui Troy dormiva. «A dire la verità,» gridò a Carol, che s’era fermata in corridoio davanti alla camera da letto grande ad ammirare sbalordita la congerie di aggeggi elettronici di cui era zeppa «sono venuto qui per la prima volta solo ieri. E quindi non so dove… Oh, bene, credo di aver trovato qualcosa.» E sfilò un tabulato da sotto un fermacarte posato sul comodino accanto al letto di Troy. Datato 15 gennaio 1994, conteneva una ventina di nomi, indirizzi e numeri telefonici.

Tornò in corridoio da Carol, scorrendo rapidamente il foglio. «Qui non c’è granché» disse, mostrandoglielo. «Numeri di telefono e indirizzi di ditte produttrici di elettronica e programmi. E un po’ di numeri di Angie Leatherwood — di quand’era in giro per concerti, probabilmente. E questo dev’essere di sua madre: Kathryn Jefferson, Coral Gables, Florida» continuò, indicando un indirizzo. «Però non c’è numero di telefono.»

Carol gli prese il foglio e controllò a sua volta. «L’ho sempre sentito parlare solo di Angie, di sua madre e di suo fratello Jamie, mai di altri amici o familiari. E ho, non so perché, l’impressione che l’ultimo suo incontro con la madre risalga a un po’ di tempo. Tu, l’hai mai sentito parlare di altri parenti?»

«No» rispose Nick. Pian piano erano entrati nella stanza-giochi, e lui girava distrattamente manopole e azionava interruttori nel passare davanti alle pile di macchine. Si fermò a riflettere un momento. «Ciò significa che resta solo Angie. Lo diremo dunque a lei e poi aspetteremo che…»

Lo scatto della porta d’ingresso che si apriva e si richiudeva li bloccò entrambi. Dopo circa un secondo, Nick disse, a voce alta ma incerta: «Salve, chiunque sia! Siamo in camera da letto». Nessuna risposta: solo un rumore smorzato di passi nel corridoio. Nick si portò d’istinto accanto a Carol per proteggerla. Un momento dopo, girava l’angolo ed entrava nella camera… Troy.

«Bene, bene: com’è vero che sono vivo e vegeto, ecco che mi trovo in casa due ladri!» fece, allargandosi in un sorriso.

Carol corse a gettargli le braccia al collo. «Troy, Troy, Dio che bello rivederti!» disse; poi, a raffica: «Ma dov’eri? Ci hai fatto venir la cacarella dalla paura, lo sai? Ti credevamo morto!».

Contraccambiando l’abbraccio, Troy disse, con una strizzata d’occhio a Nick: «Orpo, ma che accoglienza! Se lo sapevo, sparivo prima…». Tese la mano a stringere quella che Nick gli porgeva. Poi, serio per un momento: «Anzi, no: un’esperienza del genere basta e avanza».

Carol si staccò da lui e lui le vide in mano il tabulato. «Stavamo per tentare di avvertire i tuoi familiari…» cominciò lei. Troy allungò la mano a prenderglielo, e, nel farlo, rivelò un braccialetto al polso destro che Carol non gli aveva mai visto prima. Largo circa quattro centimetri, aveva una ventina di maglie, che sembravano pepite d’oro schiacciate. «E questo, dove l’hai preso?» domandò Carol, tenendogli sollevato il polso in modo da esaminarlo meglio.

Incapace di trattenersi oltre, Nick interloquì senza dargli il tempo di rispondere alla domanda: «Secondo Carol, l’ultima volta che ti s’è visto stavi sparendo giù per un corridoio di un laboratorio sottomarino. Con alle calcagna un’ameba grande due metri. Come accidenti hai fatto a scappare? Abbiamo perlustrato l’intera zona…».

Troy levò le braccia, felice di essere al centro dell’attenzione. «Amici, amici: un momentino di pazienza, per favore! Datemi il tempo di soddisfare le esigenze della natura e vi racconterò ogni cosa.» Ciò detto, si girò per entrare in bagno. Dal quale venne un rumore familiare. «Prendete della birra dal frigo e andate in soggiorno!» gridò Troy da dietro la porta chiusa. «Già che ci siamo, tanto vale godercela!»

Due minuti dopo, Nick e Carol sedevano insieme sul grande divano del soggiorno. Troy s’abbandonò sulla poltrona di rimpetto proprio mentre Nick tracannava una sorsata di birra. «C’era una volta,» cominciò Troy, con un sorriso malizioso «c’era una volta un giovane nero di nome Troy Jefferson, il quale, mentre stava facendo un’immersione con certi suoi amici, scomparve per quasi due ore in un misterioso edificio sottoceanico. Al suo riemergere da codesta avventura, il detto giovane venne tratto in salvo da sommozzatori della Marina statunitense che passavano di lì, e subito trasportato in elicottero militare a Key West. Quivi, a lungo interrogato circa le ragioni del suo solingo nuotar nel Golfo del Messico a oltre quindici chilometri dall’isola più vicina, il nostro giovine venne rilasciato un’ora appresso, pur non avendo nessuno creduto una sola parola della sua storia.» Troy guardò da Nick a Carol e viceversa. Poi, più serio, aggiunse: «Va da sé che, a quelli, non ho detto niente di quello che è successo veramente, perché, tanto, non mi avrebbero creduto».

Carol si piegò verso di lui. «Così, sei stato accolto dalla Marina. E subito dopo che ce ne siamo andati noi.» Poi, rivolta a Nick: «Ne consegue che, per qualche ragione, siamo stati seguiti». E che il missile stava davvero là, pensava intanto. Ma, se ci stava dov’è finito? È forse stato trovato dalla Marina? E che c’entra la Marina con quella follia di laboratorio? C’è da diventar matti…

«Ti abbiamo cercato per più di un’ora» stava dicendo Nick, che provava rimorso per aver abbandonato le ricerche tanto presto. «Io non ho minimamente pensato che potessi essere ancora in quell’accidente di posto, e, naturalmente, mica potevamo star là a ciondolare in eterno, dopo che quello strano coso, quel tappeto venuto dal mare, ci aveva mandato in tilt tutta la nostra elettronica. Insomma, avevamo perso tutto il nostro sist…» Si bloccò a mezza frase, e guardò Troy. «Scusa, amico mio.»

«Ma figurati» Troy alzò le spalle. «Avrei fatto lo stesso anch’io! Se non altro, ora so che avete fatto conoscenza con uno dei personaggi bizzarri della mia storia. Non è che avete fatto anche quella di uno dei guardiani, per caso? Globoni di gelatina trasparente, tipo ameba, con scatolette al centro e una selva di bacchette amovibili in cima?»