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Il registratore si arrestò con un clic. I due tenenti si guardarono in faccia. «Cazzo, Ramirez, ma tu ci credi alla storia di “’sto bastardo”? anche solo tanto così?» L’altro fece di no con la testa. «E, allora, perché accidenti l’hai lasciato andare? ’Sto stronzo di negro è stato lì seduto per un’ora a pigliarci per il culo con risposte ridicole, e tu alla fine l’hai rilasciato come niente fosse.»

«In mancanza di prove concrete di reato, è proibito trattenere chicchessìa» rispose Ramirez, come citando alla lettera un manuale militare. «E il nuotare nell’oceano a sedici e passa chilometri dall’isola più vicina sarà come insolito, ma non costituisce reato.» Alla facciaccia del collega, soggiunse: «Inoltre, non si è mai contraddetto, ma ha ripetuto sempre la stessa storia».

«Le stesse cazzate, vorrai dire» fece il tenente Todd, allungandosi contro lo schienale della sedia. I due ufficiali sedevano a un piccolo tavolo da riunione in una vecchia sala dalle pareti intonacate di bianco. Il registratore era sul tavolo di fronte a loro, accanto a un portacenere vuoto. «Alle quali cazzate non credeva lui stesso, tant’è vero che se ne stava lì con un bel ghigno sfottente sulla sua faccia nera, sicuro di non poter venire accusato di nulla.» Riportate tutt’e quattro le gambe della sedia sul pavimento, continuò, battendo il pugno sul tavolo: «Un sub esperto non sta sotto da solo nemmeno cinque minuti, altro che mezz’ora! Perché sa quante cose possono andar storte. In quanto ai suoi amici, perché cavolo l’hanno lasciato solo, eh?». Alzatosi, proseguì, gesticolando: «Te lo dico io il perché, caro il mio tenente: perché sapevano che non correva alcun pericolo, essendo stato raccolto da un sottomarino nucleare russo! Te l’avevo detto che avremmo dovuto prendere una delle nuove navi, cazzo: con le apparecchiature elettroniche potenziate, l’avremmo localizzato probabilmente!».

Mentre Todd teneva la sua conferenza, Ramirez giocherellava col portacenere di vetro. «Ma sei proprio convinto che quei tre siano coinvolti coi russi in questa faccenda? A me pare proprio tirata per i capelli.»

«Tirata un cazzo,» replicò Todd «non c’è altra spiegazione possibile! Tutti i tecnici con cui abbiamo parlato sostengono l’impossibilità di disfunzioni compatibili con la condotta osservata del missile e, contemporaneamente, coi dati telemetrici ricevuti dalle nostre stazioni di tracciamento. Pertanto, non si scappa: il Panther è stato comandato fuori traiettoria dai russi.»

Sempre più concitato, Todd spiegò lo svolgimento del complotto: «Sapendo di aver bisogno di aiuto locale per localizzare il missile nell’oceano, i russi hanno assoldato Williams e la sua ciurma perché lo cercassero e segnalassero loro il punto esatto, dove avrebbero mandato un sottomarino a prenderlo. L’aggiunta di quella Dawson alla ciurma è stato un colpo maestro: le sue indagini, infatti, ci hanno indotto a preoccuparci maggiormente della stampa e, di conseguenza, a rallentare le ricerche».

«Certo che, come persuasore, sei proprio in gamba, Richard» rise Ramirez. «Resta però il fatto che non abbiamo un briciolo di prova. Alla versione di Troy Jefferson non credo nemmeno io, ma può aver mentito per una quantità di ragioni — e, di tutte, quella che ci riguarda è una sola. Inoltre, la tua spiegazione evita pur sempre di rispondere a una domanda fondamentale: perché mai i russi si darebbero tanta briga solo per catturare un missile Panther?»

«Può darsi che né tu né io, e magari neanche il capitano Winters, conosciamo tutta la storia del Panther» si affrettò a controbattere Todd. «Magari è stato progettato per il trasporto di una nuova arma rivoluzionaria, di cui nemmeno noi abbiamo mai sentito parlare. Non sarebbe del resto la prima volta che la Marina presenta un progetto sotto una certa luce per meglio tenerne nascosto lo scopo vero.» Un momento di riflessione, e poi: «Quanto alla motivazione dei russi, a noi importa poco. Quello che dobbiamo pensare è che abbiamo indizi dell’esistenza di un complotto — e che è nostro compito sgominarlo».

Ramirez non rispose immediatamente, ma continuò a giocherellare col portacenere. «Be’, io non la penso più così» finì per dire, fissando Todd. «Indizi concreti di complotto io non ne vedo. Perciò, a meno di ordini diretti alla mia sezione da parte del capitano Winters, io abbandono le indagini.» Un’occhiata all’orologio, poi, alzandosi per andarsene: «Così, almeno, ho ancora il sabato sera e la domenica da passare in famiglia».

«E se ti portassi una prova concreta?» disse Todd, non curandosi minimamente di nascondere la sua avversione per lui.

«Una prova concreta saprà convincere anche Winters» rispose freddamente Ramirez. «Io, in questa faccenda, ho già corso abbastanza rischi, e non intendo fare un passo di più, a meno che non mi venga ordinato da chi di dovere.»

Winters non sapeva se avrebbe trovato qualcosa di adatto. Di norma, evitava di proposito le zone pedonali dei negozi, soprattutto di sabato pomeriggio. Ma, mentre assisteva sul divano a una partita di pallacanestro dell’NCAA bevendo birra, si era ricordato di quanto piacere gli avesse fatto il ricevere da Helen Turnbull, l’interprete di Maggie, un servizio di insoliti sottobicchieri in cotto dopo il fine settimana inaugurale della Gatta sul tetto che scotta. «È una tradizione teatrale che si perde, temo,» aveva detto l’esperta attrice al suo ringraziamento «ma il fare regalucci dopo la serata o le serate d’apertura resta il mio modo di congratularmi con coloro coi quali ho avuto il piacere di lavorare.»

La zona pedonale era affollata di clientela del sabato, e lui si sentiva stranamente in vista, come se tutti lo stessero guardando. Ciondolò così diversi minuti, prima di pensare a quale genere di regalo avrebbe potuto farle. Una cosa semplice, chiaro, pensò. Niente che possa venire male interpretato. Un ricordino e basta. Vide Tiffani come gli era apparsa nella fantasia erotica della notte avanti, e l’immagine lo imbarazzò, lì in mezzo alla folla delle compere. Evocò quindi nervosamente un’altra immagine, questa sana e accettabile, della bambina Tiffani durante la conversazione di lui col padre. I capelli, pensò, ricordando le treccine. Le comprerò qualcosa per i capelli!

Entrato in un negozio di regali, tentò di orientarsi nel caos di paccottiglia che riempiva le pareti e s’ammucchiava senza un criterio su una varietà di tavoli. «Posso aiutarla?» Sussultando alle parole della commessa alle sue spalle, Winters scosse il capo. Be’, e perché hai detto di no, quando è proprio il contrario?, pensava intanto. Come fai a trovare qualcosa da solo?

«Mi scusi, signorina» gridò quasi alla ragazza che si allontanava. «Ripensandoci, un consiglio mi servirebbe sì. Vorrei acquistare un regalo.» Di nuovo la sensazione di essere al centro degli sguardi… «Per mia nipote» aggiunse in fretta.

La commessa era una bruna sulla ventina, brutta ma con una faccia vispa. «Ha già in mente qualcosa?» domandò. Aveva i capelli lunghi, come Tiffani.

«Più o meno» rispose Winters, meno teso ora. «Ha dei bei capelli lunghi, come i suoi. Che cosa potrei comprarle di davvero speciale? È per il suo compleanno.» Di nuovo provò una strana, incomprensibile ansia.

«Che colore?» chiese la ragazza.

Una domanda senza senso. «Ma se non so ancora cosa voglio, come faccio a conoscere il colore?» replicò lui sconcertato.

Sorridendo, la ragazza scandi, come se parlasse a un ritardato mentale: «Di che colore sono i capelli di sua nipote?».