Winters ordinò che l’esistenza dell’indagine Freccia Spezzata venisse mantenuta segreta e che ogni richiesta d’informazioni relativa ad essa venisse indirizzata a lui personalmente. Fissò quindi la riunione seguente alle tre del pomeriggio successivo, un venerdì, ora entro la quale il tenente Todd gli avrebbe sottoposto i risultati dell’analisi della telemetria intermittente, una più esauriente esposizione logica delle cause di mancato funzionamento, e un elenco di problematiche recenti relative alla componentistica 4,2.
Il tenente Richard Todd uscì dalla sala con la consapevolezza che il compito assegnatoli era destinato ad avere un’importanza decisiva sulla sua carriera. Chiaramente, quel capitano Winters, stava già mettendo in questione la sua competenza personale, ma lui intendeva rispondere alla sfida in modo positivo. Perciò, la prima cosa che fece fu quella di chiamare a rapporto, come per un’autopsia, i giovani subordinati (che erano tutti dei guardiamarina appena usciti dall’università dopo aver completato un corso ROTC della Marina), e di dir loro chiaro e tondo che era in gioco il culo di tutti quanti. La seconda, quella di assegnar loro una serie di compiti che li avrebbe impegnati per gran parte della notte. Perché lui, alla riunione dell’indomani, doveva assolutamente arrivare preparatissimo.
4
Key West era fiera del suo nuovo porto turistico. Terminato nel 1992 subito dopo che l’esplosione crocieristica aveva portato un nuovo flusso di visitatori alla vecchia città, il porto era quanto di più moderno ci potesse essere. I moli erano provvisti di alte torri, dalle quali delle telecamere tenevano l’insieme sotto sorveglianza costante. Telecamere e altri sistemi di sorveglianza elettronica erano però solo uno degli aspetti del complesso apparato di sicurezza destinato a proteggere gli attracchi in assenza dei proprietari di barche. Un’altra e nuova caratteristica della Hemingway Marina (così, dal più famoso residente di Key West, era stato infatti, naturalmente, battezzato il porto) era una centrale di comando-navigazione. In essa, grazie a un sistema di controllo-traffico praticamente automatico, un singolo operatore era in grado di trasmettere istruzioni a tutto il naviglio portuale e di dirigerne al meglio il florido traffico.
La Hemingway Marina era stata costruita in Key West Bight, in un settore portuale ormai decrepito, e offriva attracchi per circa quattrocento barche. Il suo completamento aveva mutato la natura del commercio cittadino. Giovani professionisti, desiderosi di stare vicini alle proprie barche all’attracco, si erano affrettati a comprare e a migliorare tutte le meravigliose case ottocentesche che costeggiavano le vie Caroline ed Eaton, lungo quello che era noto come Pelican Path. Negozi di lusso, ristoranti chic e anche qualche piccolo teatro s’erano quindi addensati nella zona a creare un’atmosfera di briosa agitazione. C’era perfino un nuovo albergo giapponese, il Mikado Gardens, che andava famoso per la magnifica popolazione di uccelli tropicali svolazzante tra le fontane e le felci dell’atrio.
Poco prima di mezzogiorno, Carol Dawson entrò nella capitaneria di porto e si diresse al banco circolare delle informazioni che stava al centro del salone. Portava una casacca di seta, color porpora-chiaro, e un paio di pantaloni lunghi di cotone che le coprivano il collo delle scarpe bianche da tennis. Al polso destro aveva due minuscoli e graziosi braccialetti d’oro con rubini, e, al collo, una collana con una grossa ametista incastonata in oro che le danzava perfetta al vertice della V della scollatura. Era uno schianto, insomma, e aveva tutto l’aspetto della turista ricca venuta a noleggiare una barca per il pomeriggio.
La ventenne del banco-informazioni, una bionda anche carina in quel suo stile americano senza fronzoli lanciato da Cheryl Tiegs, la osservò avvicinarsi con una punta d’invidia. «In cosa posso servirla?» le chiese con finto garbo quando l’ebbe davanti.
«Vorrei noleggiare una barca per il resto della giornata» rispose Carol. «Ho voglia di uscire a fare qualche immersione e un po’ di nuoto, e magari anche una visita ai relitti più interessanti dei dintorni.» Delle balene — aveva deciso — avrebbe parlato solo dopo aver scelto la barca.
«Allora è capitata proprio nel posto giusto» disse la ragazza. Poi, girandosi verso il computer alla sua sinistra e preparandosi a battere sulla tastiera, continuò: «Mi chiamo Julianne, e uno dei miei compiti qui è quello di aiutare i turisti a trovare le barche adatte alle loro esigenze ricreative». “Questa, se l’è imparata a memoria”, si disse Carol. «Ha già un’idea del prezzo? Qui alla Hemingway la maggioranza delle barche appartiene a privati, ma disponiamo anche di ogni genere di barche da noleggio, la maggior parte delle quali risponde a quanto lei cerca. L’unico problema è se in questo momento siano disponibili.»
Carol fece segno con la testa di non avere idee precise circa il prezzo, e, nel giro di qualche minuto, si vide fornire un tabulato con sopra i nomi di nove barche. «Le barche disponibili sono queste» disse la ragazza. «Come le dicevo, il prezzo varia parecchio.»
Carol studiò rapidamente la lista. La barca più grande e più cara era l’Ambrosia, un sedici metri che costava ottocento dollari al giorno, o cinquecento per mezza giornata. Venivano quindi due barche di prezzo medio e due altre piccole (otto metri), che costavano la metà dell’Ambrosia. Dopo un istante di esitazione, Carol disse: «Vorrei parlare, per primo, col capitano dell’Ambrosia. Dove devo andare?».
«Conosce già il capitano Homer?» rispose Julianne, con un curioso sorrisetto all’angolo della bocca. «Homer Ashford» ripeté lentamente, come fosse un nome noto. Carol si lambiccò un po’ il cervello. Il nome le era familiare. Dove l’aveva sentito? Ah sì, una volta, tempo addietro a un telegiornale…
La ragazza continuò, prima che il ricordo le riaffiorasse: «Allora avverto che lei sta arrivando». Sotto il banco, a destra, c’era un’enorme batteria-relè con parecchie centinaia di interruttori, che doveva essere collegata a un sistema di altoparlanti. Julianne pigiò un interruttore, poi disse: «Sarà questione di un minuto».
«Cosa vuoi, Julianne?» echeggiò un vocione femminile dopo una ventina di secondi. Una voce straniera, tedesca a giudicare dalla pronuncia della seconda parola, e spazientita.
«Ho qui una donna, Greta, la signorina Carol Dawson di Miami, che vuol venire a parlare col capitano Homer per il noleggio dello yacht per questo pomeriggio.»
Un momento di silenzio, poi si riudì la voce di Greta. «Ja, fa pene, màntala pure.» Con un gesto, Julianne invitò Carol a discendere il banco sino a una familiare tastiera incassata in una rientranza della superficie. Carol, che aveva seguito più volte la trafila da quando era stato introdotto, nel 1991, il SIU (Sistema d’Identificazione Universale), batté nome e numero di provenienza sociale, e rimase in attesa della domanda di verifica. Chissà quale sarebbe stata: luogo di nascita? nome della madre da nubile? data di nascita del padre? Era sempre una domanda a caso, scelta sulla base di venti dati personali, immutabili e propri di ciascun individuo. Impersonare qualcun altro richiedeva, ormai, un bello sforzo davvero.
«Signorina Carol Dawson, 1418 Oakwood Gardens, appartamento 17, Miami Beach.» Carol assentì. Per la bionda Julianne, il controllo-dati dei possibili clienti era chiaramente una parte piacevole del lavoro. «Data di nascita?» fu la domanda a caso.
«27 dicembre 1963» rispose Carol. Nel viso di Julianne lesse di aver risposto giusto, ma anche un’altra cosa: un che di competitivo e, anzi, di sprezzante, quasi un «Ah-haa, sono un sacco più giovane di te e adesso lo so». A sciocchezze del genere, Carol di solito non badava; ma, quella mattina, il fatto di avere trent’anni la fece sentire, chissà perché, a disagio. Lì per lì ebbe voglia di cancellare il sorrisetto della piccola Julianne con una battute acida, ma poi ci ripensò e tenne a freno la lingua.