Julianne le diede le indicazioni. «Esca da quella porte laggiù a destra, e vada dritta fino al Molo 4. Poi giri a sinistra e inserisca questa tessera nella serratura del cancello. L’Ambrosia sta all’attracco “P” come Peter. Per arrivare in fondo al molo c’è un bel pezzo a piedi. Ma non può sbagliare: lo yacht che cerca è una delle barche più grandi e più belle del porto.
Julianne aveva detto giusto. Risalire al Molo 4 era davvero una bella camminata. Per arrivare all’Ambrosia, Carol Dawson dovette oltrepassare un totale di trenta barche della più varia stazza, attraccate ad ambo i lati del molo. E, quando avvistò il nome, in lettere blu marcate, sul davanti della cabina, aveva ormai cominciato a sudare a causa dell’afa.
Quando giunse finalmente davanti all’Ambrosia, il capitano Homer Ashford risalì la passerella per venire ad accoglierla. Più vicino ai sessanta che ai cinquanta, questi era un colosso alto più di un metro e ottanta e sui centoventicinque chili di peso, con una chioma ancora folta, ma in cui il nero originario aveva ormai ceduto quasi totalmente il posto al grigio.
I suoi occhi spiritati avevano seguito l’avvicinarsi di Carol con lubrica franchezza. Lei, riconosciuto lo sguardo, ebbe un moto di istintivo ribrezzo e fu lì lì per girarsi e tornare alla capitaneria. Ma non se la sentì, al pensiero di dover riaffrontare, accaldata e stanca, una così lunga camminata. Nel suo mutato atteggiamento il capitano dovette manifestamente cogliere la disapprovazione, perché trasformò il ghigno libidinoso in un sorriso da zio di famiglia.
«La signorina Dawson, immagino» esordì, con un leggero inchino finto-galante. «Benvenuta sull’Ambrosia. Il capitano Homer Ashford e il suo equipaggio sono al suo servizio.» Carol dovette, suo malgrado, sorridere. Se non altro, quel buffone in camicia hawaiana blu-sgargiante sembrava non prendersi troppo sul serio. Accettata, pur con qualche ritegno, la Coca-Cola che le veniva offerta, lo seguì lungo la gettata inferiore a lato della barca. Poi scese con lui nello yacht. Uno yacht enorme.
«Julianne ci ha detto che lei sarebbe interessata a un noleggio per questo pomeriggio. Noi ameremmo portarla in uno dei nostri luoghi preferiti: Dolphin Key.» Erano davanti alla timoniera e alla parte delle cabine. Il capitano Homer era ormai lanciato nel suo discorsetto da imbonitore. Da un punto assai vicino giungeva un suono metallico, che a Carol parve come di bilanciere da sollevamento pesi.
«Dolphin Key è una meravigliosa isola solitaria,» continuò il capitano Homer «ideale sia per nuotare sia per i bagni di sole integrali, se lei ama questo genere di cose. E, se è interessata alle immersioni, offre anche un relitto settecentesco a non più di un paio di miglia al largo.» Carol bevve un altro sorso di Coca e alzò per un istante gli occhi a guardarlo. Lì stornò immediatamente: di nuovo l’espressione lasciva. L’insistenza di lui sull’“integrali” le aveva chissà come trasformato l’immagine mentale di Dolphin Key da quella di placido paradiso tropicale in quella di luogo da orge e guardoni. Quando lui la sfiorò per accompagnarla lungo la fiancata, si ritrasse vivamente. È proprio un tipo schifoso, pensò. Avrei fatto meglio a seguire il mio primo impulso e ad andarmene.
Mentre, superata la porta della cabina, si avvicinavano alla prua della lussuosa imbarcazione, il suono metallico si fece più distinto. Carol, la curiosità giornalistica stimolata da un rumore così fuori luogo, non ascoltò quindi più di tanto l’illustrazione dei pregi dello yacht che le veniva intanto fatta dal capitano. Quando finalmente giunsero in vista del ponte prodiero, constatò che il suono era proprio quello di un bilanciere. A esercitarsi nel sollevamento pesi, era una donna bionda, che dava loro la schiena.
La donna aveva un corpo magnifico; anzi, da mozzare il fiato. Tendendosi alla fine di una serie di distensioni, sollevò i pesi alti sopra la testa. I muscoli, che sembravano scenderle come increspature d’onda dalle spalle, apparivano rigati di rivoli di sudore. Portava un pagliaccetto nero scollato, quasi senza dorso, le cui bretelline sembravano incapaci di sorreggere l’insieme. Il capitano Homer aveva smesso di parlare della barca e, notò Carol, stava là in rapita ammirazione, come fulminato dalla sensuale bellezza della donna sudata in pagliaccetto. È proprio un posto che dà i brividi, pensò Carol. Forse è per questo che la ragazza mi ha domandato se conoscevo questa gente.
La donna infilò i pesi sulla piccola rastrelliera e prese un asciugamano. Quando si voltò, Carol la giudicò prossima ai quarant’anni, e di una bellezza atletica. Aveva seni ampi e sodi, chiaramente visibili sotto il pagliaccetto esiguo. Ma la cosa più notevole erano gli occhi: occhi grigioazzurri che sembravano trafiggere. Quegli occhi lanciarono uno sguardo che Carol giudicò ostile, quasi minaccioso.
«Greta,» disse il capitano Homer, quando la donna spostò lo sguardo da Carol a lui «questa è la signorina Carol Dawson. Che forse noleggerà la barca per questo pomeriggio.»
Senza spendere né un sorriso né una parola, Greta si asciugò il sudore dalla fronte, respirò a fondo un paio di volte, e, gettandosi l’asciugamano su collo e spalle, si drizzò tutta davanti a Homer e a Carol. Poi, spalle indietro e mani sui fianchi, contrasse i pettorali. A ogni contrazione i floridi seni sembravano tendetesi verso il collo. E, durante l’intero esercizio, gli occhi chiarissimi non cessarono di soppesare Carol, in un minuto esame di corpo e abbigliamento. Carol ebbe un involontario fremito.
«Be’, salve, Greta,» disse, sentendosi stranamente priva della sua consueta padronanza, in quell’imbarazzante momento «lieta di conoscerla.» Gesù, toglimi di qui, pensò, quando vide Greta limitarsi a fissare per diversi secondi la mano che lei le porgeva. O sono su un pianeta sconosciuto, o sto avendo un incubo.
«Non ci faccia caso,» le disse il capitano Homer «a Greta, ogni tanto, piace divertirsi coi nostri clienti.» Era irritato con Greta? Carol credette di cogliere una sorta di scambio muto fra i due, e, alla fine, Greta sorrise. Ma di un sorriso falso.
«Penfenuta sull’Ambrosia» disse, scimmiottando il saluto del capitano Homer. «Il nostro piacere la attente.» Poi, sollevando le braccia sopra la testa, gli occhi sempre su Carol, cominciò a stirarsi. «Fenga con noi in paratiso» disse.
Carol sentì sul gomito la manona del capitano Homer che la invitava a girarsi. E le parve anche di cogliere un’irosa occhiata a Greta. «L’Ambrosia è la più bella barca da nolo di Key West» disse il capitano, riassumendo il tono da imbonitore mentre la guidava di nuovo a poppa. «Ha tutte le comodità possibili e immaginabili: televisione via cavo con schermo gigante, lettore di CD con casse quadrifoniche, chef automatico programmato con oltre cento piatti d’alta scuola, messaggio robotizzato. E nessuno conosce le Key come il sottoscritto, che vi pratica immersione e pesca da cinquant’anni.»
Si erano fermati all’ingresso della zona-cabine al centro dello yacht. Attraverso la porta a vetri Carol poteva vedere una scala di discesa. «Vuol scendere a vedere cambusa e camera da letto?» chiese il capitano Homer, stavolta senz’ombra di sottintesi lascivi. Un astuto camaleonte, ecco cos’è, non un buffone come lì per lì m’è sembrato, pensò Carol. Ma cos’è questa faccenda con la muscolosa Greta, chiunque sia?, si chiese. E cosa succede su questa barca? Perché sono tanto strani?