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Troy, rannicchiato dietro il volante il più in basso possibile, riusciva a stento a vedere la strada davanti. Guidava come un pazzo, schizzando fra le quattro corsie incontro al traffico in arrivo, a clacson strombazzante, in maniera da impedire a Greta di prevedere le sue mosse.

«Ma dove sono i piedipiatti, quando ti servono sul serio?» imprecò. «Eccoci qua con dei pazzi furiosi che ci sparano addosso in piena Key West, e degli uomini in blu manco l’ombra!»

Dietro suggerimento di Nick, fece una rapida conversione a U in piena strada e ripartì nella direzione opposta. Impreparata, Greta frenò, slittò, andò a sbattere contro un’auto ferma accanto al marciapiede, e si rimise in caccia.

Ora non c’erano più macchine davanti, e la Mercedes si faceva sempre più sotto. «Alé, proviamo questa!» disse Troy. Nel timore di un nuovo attacco, sterzò di scatto a sinistra, sfrecciò per un vicolo, attraversò un parcheggio, e tornò indietro per un’altra stradina. Qualche minuto dopo infilò a tutta velocità un passo carraio. E la macchina si trovò improvvisamente illuminata a giorno. Troy bloccò i freni. «Fuori tutti!» gridò. Mentre Nick e Carol stavano cercando di raccapezzarsi, lui consegnava le chiavi dell’auto a un tipo alto in uniforme rossa.

«Vogliamo solo bere qualcosa» disse, mentre stridevano i freni della Mercedes. «E questi tipi dietro a noi hanno delle pistole e stanno tentando di ammazzarci!» gridò alla mezza dozzina di astanti, fra cui due custodi del parcheggio.

Per Greta e Homer era ormai troppo tardi per scappare. Troy era entrato nel parcheggio dell’albergo Miyako Gardens e, dietro la Mercedes, era ormai arrivata nel viale un’altra auto. Greta inserì la marcia indietro, andò a sbattere contro la Jaguar che ora aveva alle spalle, e tentò di filarsela passando di forza a lato della Ford. Troy e il guardiano in uniforme schizzarono via, e Greta, centrata la portiera aperta della Ford, perse il controllo della Mercedes e finì per schiantarsi contro il gabbiotto del parcheggio al centro del viale d’accesso. Mentre Nick e Carol smontavano barcollando dalla Ford, Greta e Homer venivano circondati da quattro agenti di sicurezza dell’albergo.

Troy raggiunse gli amici. «Vi siete fatti male?» Carol e Nick fecero entrambi di no con la testa. Troy, allora, con un gran sorriso: «Be’, quei due adesso sono sistemati per bene, mi pare!».

Carol lo abbracciò. «È stata un’idea geniale quella di venire qui» disse. «Com’è che t’è venuta?»

«Uccelli» rispose lui.

«Uccelli?» fece Nick. «Ma che cazzo dici, Jefferson, si può sapere?»

«Be’, professore,» spiegò Troy, aprendo la porta dell’elegante albergo e seguendo gli amici nell’atrio aperto «quando stavano per pigliarci, poco fa, mi sono reso conto che stavano probabilmente per ucciderci per via dell’oro che gli abbiamo soffiato. E allora mi sono domandato se davvero non ci fossero uccelli, in cielo, come mi diceva sempre mia madre.»

«Troy» sorrise Carol «fa’ il favore: piantala con le stronzate, per una volta, e vieni al punto.»

«Ma ci sono, angelo! Guardati un po’ intorno» rispose lui. Nell’atrio del Miyako Gardens c’era infatti un magnifico aviario, le cui sbarre sottili e rabescate salivano in alto per tre piani sotto una batteria di riflettori. E le centinaia di uccelli colorati che giocavano fra le piante rampicanti e i palmizi, conferivano coi loro versi all’atrio dell’albergo un’autentica atmosfera tropicale.

«Quando ho pensato agli uccelli,» disse Troy, incapace di trattenere più a lungo una risata matta «mi sono reso conto che eravamo nelle vicinanze di questo albergo, e così l’idea mi è nata praticamente da sé!»

In piedi davanti all’aviario, alzarono gli occhi ad ammirarlo. Carol, nel mezzo, allungò le mani a prendere quelle di ciascuno dei due.

RIMPATRIO

L’astronave posa tranquilla sotto l’oceano verde-smeraldo. Strane creature pisciformi passano nuotando accanto, osservano la visitatrice venuta dai cieli, e poi continuano il loro tragitto. È in corso il controllo finale prima della collocazione. Al termine del controllo, sul fondo del veicolo si apre un portello e appare una sfera metallica d’oro del diametro di una quarantina di centimetri, fissata a una piattaforma lunga e stretta. I cingoli sottostanti spingono la piattaforma giù per un piccolo scivolo e lungo il sabbioso fondale oceanico.

Il veicolo piatto svanisce lontano col suo carico. Dopo una lunga attesa, la strana piattaforma mobile torna sull’astronave senza la sfera d’oro. Lo scivolo rientra, la porta si chiude, e l’astronave è pronta alla partenza. Poco dopo, la grande nave s’avvia lentamente su per l’acqua, salendo fin quasi alla superficie dell’oceano smeraldino. Qui si riconfigura, sviluppando ali, alettoni direzionali e altri strumenti di controllo, ed emerge dall’acqua con la temporanea forma di un aeroplano. La sua ascesa nel cielo azzurro, radioso della luce dei soli gemelli, è rapida e stupefacente. La velocità orbitale viene raggiunta in un baleno. Una volta in orbita sopra l’atmosfera, le superfici aerodinamiche vengono ritratte, e l’astronave compie un viaggio finale attorno al pianeta Canthor. Al raggiungimento della vera e propria anomalia orbitale, accelera rapidamente, muovendo verso il freddo e la tenebra dello spazio interstellare. La terza consegna è stata effettuata; nove ne restano ancora, al completamento della sua missione di sessanta millicicli.

Passano tre millicicli. Il pianeta seguente è a soli sei sistemi di distanza, e si tratta di un altro pianeta oceanico orbitante attorno a un sole giallo d’inconsueta stabilità. La quarta culla verrà depositata sul terzo corpo dell’astro, un pianeta il cui periodo di moto attorno al sole centrale è tanto breve, da raggiungere quattordici rivoluzioni in un milliciclo.

Prima di raggiungere l’obiettivo, l’astronave compie una deviazione. Cala profondamente nell’atmosfera ricca d’idrogeno del massimo pianeta del nuovo sistema, ottenendo così due cose: un sensibile rallentamento di velocità rispetto alla stella centrale, grazie alla conversione dell’energia cinetica in dissipazione di calore, e un parziale rifornimento della propria riserva di elementi grezzi e di composti chimici primari, per mezzo dei quali la fabbrica di bordo crea tutti i rimpiazzi e i pezzi di ricambio. Uscita dal tuffo nell’atmosfera densa, la viaggiatrice interstellare percorre la distanza finale all’obiettivo in un tranquillo tempo di seicento nanocicli.

Nella fase di avvicinamento, le componenti automatiche dell’elaboratore centrale compiono una sperimentata sequenza di controlli al fine di accertare eventuali mutamenti nelle condizioni del pianeta-obiettivo rispetto all’ultima serie di osservazioni sistematiche condotta tre cicli addietro. Il contenuto di ogni culla è stato progettato specificamente sulla base dell’ambiente del pianeta volta a volta destinato alla crescita e allo sviluppo degli zigoti, ogni mutamento significativo di tale ambiente potrebbe infatti ridurre drasticamente la probabilità di sopravvivenza delle specie rimpatriate. Al comando dell’elaboratore, entra in azione una batteria di supersensori a distanza, col compito di verificare se il pianeta continui ad adempiere alle condizioni previste dalla progettazione originaria.

Ora, gli strumenti dicono che le condizioni previste non ci sono più. L’ambiente è cambiato. Non in maniera significativa, però, non come se fosse stato rielaborato su grande scala e a uno scopo precipuo da una qualche intelligenza avanzata. No, i dati iniziali indicano solo che, nell’ultimo paio di cicli, si è avuto l’emergere di un’intelligenza indigena, la quale ha esercitato un impatto non trascurabile tanto sulla superficie quanto sull’atmosfera del pianeta.

Mentre i sensori a distanza continuano la rilevazione del pianeta-obiettivo, viene scoperto qualcosa di ancora più insolito: la presenza di satelliti artificiali, a migliaia, che vi orbitano attorno. Il pianeta è dunque diventato dimora di una specie di viaggiatori spaziali. All’interno dell’elaboratore centrale dell’astronave scatta un allarme: zigoti e sistema-culla destinati a questo pianeta non sono stati previsti per la presenza di un’altra specie avanzata.