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Stava seduto sopra una grande cassa etichettata DINAMITE: FABBRICATA IN BELLINZONA. La quale a sua volta poggiava sul gran ganglio nervoso che protendeva le sue braccia verdognole dal morto cuore di Oceano. Tutt'intorno a lui s'ammucchiavano diverse casse consimili.

Quel che reggeva in grembo era un temporizzatore. Gli era parso d'aver capito, come farlo funzionare. Dunque: aggancia quest'affare qua a quell'aggeggio là, carica il trappolino che staddietro quest'altr'arnese qui, e poi…

Niente. Non ticchettava. Non faceva nulla.

Stando ai patti avrebbe dovuto collegare quell'ammennicolo e poi darsela a gambe di laggiussótto correndo come il vento. Ma lui non aveva fatto nessun conto di filarsela, e allora quando Gaby gli aveva dato il via aveva aspettato un bel po' di tempo, prima di mettersi al lavoro. Ora però pareva proprio che quel trabiccolo non volesse saperne di funzionare né di riffa né di raffa perché lu' ciaéva già provato a collegarlo in tutti li modi possibili e 'mmagginabili e 'n era success'un cavolo de gnente.

Singhiozzò la sua delusione.

Cribbio se glie sarebbe piaciuto d'avecce lipperlì 'na bella sleppa de pescio! Roba da non crede, roba da levatte de sentimento, quanto più meglio se saporivano quell'anguillozzi fetosi a scotticchiarli nu poco sur foco… Ma com'ava fatto lu' a nun pensacce pe' gnente?

Stava quasi per fare un salto di sopra ad acchiappare qualche preda, quando si ricordò di quanto avrebbe impiegato per andar su e tornare giù. Bah! Ecco perché aveva aspettato così tanto prima di mettese a zazzica' con quer comesechiama, considerando tutto 'r tempo che glie ce sarebbe vorsuto pe' sali' fin'in cim'a tutti quei scalini…

S'accorse che stava un'altra volta divagando. Rimpasticciò le parti del detonatore, chiedendosi se sarebbe mai riuscito a metterlo in sesto.

E continuò a pensare che stava dimenticando qualcosa.

Ed era la parte più importante.

Non gli funzionavano i freni, a quel trenìnculo inchiappettato.

Luther stramaledisse energicamente quel troiaio, poi, mentre transitava accanto alla stazione, si buttò giù, ruzzolando rovinosamente.

Si rialzò vacillando. Pezzettini di Luther giacevano disseminati qua e là sul marciapiede. Fortuna che non erano pezzi importanti. Un orecchio, un frammento d'osso cranico, parte di un piede.

Gli restava poco tempo, e lo sapeva.

Guardò il treno allontanarsi sbuffando lungo l'ampia curva. Avrebbe continuato ad andare avanti per sempre, gira e rigira in tondo alla grande ruota di Pandemonio, gira e rigira in tondo alla Grande Madre Gea…

E invece no. La linea era interrotta, perché… tum… Gea s'era battuta contro il grariserpente perché… tum… tum… Cirocco li stava attaccando! E Gea aveva inviato qui proprio lui, Luther, onde compisse un'importante missione!

Adesso il suo cervello stava arrancando avanti mica male, eh sì. Se gira il tempo sufficiente, anche a una ruota quadrata gli si smussano un poco gli spigoli, chiaro. E Luther si sentiva vigile e pronto non meno di com'era sempre stato fin dal giorno… che era morto. Corrugò quel poco di fronte che gli rimaneva, poi, con una spallucciata alle perplessità, si affrettò giù per gli scalini.

Fu affrontato da Gautama. Quel lardoso finocchietto rompipalle dorodorato d'una Gautama, gnaulante chissaché in chissaquale barbara lingua da miscredenti. Luther sguainò la sua croce — la possente Spada del Signore — e lo decapitò di netto.

La qual non uccise Gautama, ovviamente: il fatto, peraltro, che con un calcione ben assestato Luther mandasse la sua testa a rotolare cento metri giù lungo la via, dovette senza dubbio recargli un certo incomodo.

Prese infatti, braccia tese ciecamente innanzi a sé, a brancolare dattorno senza costrutto. Luther neanche lo degnò di un'altra occhiata, tutt'intento com'era a un suo cantante mugolìo e proteso in un volenteroso tentativo d'articolazione labiopalatale, sebbene ormai più non disponesse d'abbastanza bocca per pronunziare gran parte delle ispirate parole che salivano a sgorgargli dal petto.

Ma ora scende un campione in battaglia

Che Dio stesso inviò quale Suo eletto!

Braccio mortai Sua possanza non uguaglia,

Ed essa sarà scudo al nostro petto!

Sugli spalti c'era gente che sparava. Udì il rombo di un cannone. Incedette sicuro sino a raggiungere il portale, e lo spalancò di schianto. Grida laceranti si levarono al suo indirizzo. Non riusciva a comprenderne il senso. Si accostò al marchingegno del ponte levatoio e individuò la leva giusta, tirando la quale…

Tum.

Sto abbassando il ponte levatoio, si disse. Tum.

Perché sto abbassando il ponte levatoio?

Ah… diamine, per aiutare Gea, naturalmente. Per aiutare Gea a…

Entrare? Tum… tum… tum…

Che non fosse mai qualche sorta d'inganno? La sua mano si allontanò di scatto dalla leva.

— No, non v'è alcun inganno, mio diletto Luther — flautò una voce vicinissima al suo orecchio.

Volse il capo, e la vide.

Era Gea, ed era sua moglie, e sua madre, e tutta la maternità e tutta la femminilità e la verginemaria diolabbingloria, con un fascio di spine avviticchiate intorno al cuore e quella santissima espressione a beatificarle il volto (il volto, sì, di quella donna bassina dal bruno incarnato) e le abbacinanti vest'immacolate e l'aureola… l'aureola! Ma sì, veridica visione, l'ammantava una bruciante, avvampante luce che prorompeva dal di lei paradisiaco corpo, il fiammeggiante splendore ch'è sigillo di bontà/sofferenza/morte, e milioni d'angeli si libravano a farle corona sonando le loro trombe celesti (e dire che neppure la conosceva, quella piccola signora bruna)… tum… inganno? Ma come avrebbe potuto trattarsi di un inganno?!

C'era gente, ora, che gli faceva piovere addosso una gragnuola di fendenti. Osservò distrattamente una delle sue braccia cadere sul pavimento di pietra. Ma, o Signore, un altro braccio rimane al Tuo servo per adempiere la Tua Volontà.

Fece un balzo ad abbrancar la leva, la spinse d'impeto in avanti, e precipitò a capofitto dentro le fauci dello sferragliante rotolante maciullante meccanismo mentre tonnellate di ponte levatoio si scardinavano alla loro inerzia abbattendosi a dismembrarlo brano a brano.

La prima morte di Arthur Lundquist era stata orribile. L'ultima, fu gloriosa.

Alcuni fotofauni erano riusciti chissacome a traversare a nuoto il fossato, e adesso ce n'era una dozzina che facevano capannello attorno a Cirocco, la quale attestata a pie' fermo osservava Gea farlesi incontro a lunghi passi baldanzosi.

La gigantesca pseudomonroe incedeva a braccia spalancate, come a voler precludere a Cirocco ogni e qualsivoglia eventuale via di scampo. Veniva avanti simile ad una spaventosa lottatrice professionista, e il suo volto era contorto in una maschera d'odio.

Distava da Cirocco cinquecento metri. Quattrocento. Trecento.

D'un tratto s'immobilizzò, in ascolto, mentre Luther moriva.

Dov'è il Bambino?

Durante la manovra di avvicinamento all'imbocco del ponte scoppiò sopra le loro teste un obice di cannone. Conal sentì qualcosa grandinargli sull'elmetto, avvertì qualcosa pungergli un braccio, udì Robin cacciare un urlo.

La vide che si premeva una mano sulla fronte, scorse del sangue trapelare fra le dita, fece l'atto di spiccare un balzo…

— No! — gli gridò Robin. — Non è nulla!

E comunque non c'era più tempo. Ormai si trovavano sulla passerella, e gli zoccoli dei titanidi tambureggiavano contro lo spesso tavolato. Si avventarono verso il grande varco. Il ponte levatoio era sollevato. Faremmo meglio a rigirare pensò Conal.

Ma, all'ultimissimo istante, il ponte cadde giù di schianto. Con parte della sua consapevolezza Conal notò che Rocky perdeva sangue da numerose ferite. In cima alla muraglia c'era qualcosa che faceva degli strani, secchi rumori scoppiettanti, esalando ondeggianti nuvolette di fumo. Alzando lo sguardo, vide che i difensori li prendevano di mira con dei fucili. Si augurò che a sparare fossero bravi quanto lui.

Varcarono l'arco d'ingresso e lo traversarono in un lampo. Conal non fece in tempo a tirare nemmeno un colpo. Le spade titanidi si misero all'opera senza esitazione, e gli umani che cadevano sotto i loro fendenti erano probabilmente morti ancor prima di accasciarsi a terra. Eppure continuavano a farsi sotto. Conal prese a sparare a tutto quello che si moveva.

Non aveva ancora avuto modo di vedere contro chi stava combattendo, né tanto meno di percepire quei soldati nella loro individualità. Alla fine incominciò a rendersi conto che erano abbigliati in maniera bizzarra. Alcuni indossavano lunghe giubbe, altri bianche armature, altri ancóra policromi calzoncioni grigioverdemarrone ed elmetti simili al suo.

Un uomo urlante corse a gettarglisi contro, evitando d'un pelo l'impatto con la spada di Rocky. Brandiva una sciabola assurdamente lunga. Impossibile dire come facesse anche soltanto a sollevarla, non parliamo poi di vibrarla efficacemente.

Eppure riuscì lo stesso a rotearla con forza colpendo Conal ad una gamba, ed egli, convinto che l'arto gli fosse stato amputato, prese ad elevare una silenziosa prece, in attesa che entro pochi attimi il terribile dolore giungesse a sferzarlo.

Poi guardò giù. La spada si era spezzata fra le grinfie dell'aggressore, che ancora ne impugnava un innocuo mozzicone. Conal vide legno scheggiato. Vide vernice argentea. L'assalitore gettò via il troncone, e un poco di quella vernice gli rimase appiccicata alla mano.

La mente di Conal, confusa, stentava ad afferrare la situazione.

Santiddìo, ma questi qua pensavano che fosse un gioco?

Poi udì gridare Valiha. Si era spinta, indisturbata, molto più addentro degli altri, e aveva incontrato Chris.

— Tornate indietro! — gridava. — Li ho trovati! Tornate indietro!