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Il volto del giovane era un disastro. Tutto incrostato di sangue rappreso, col naso e gli zigomi fratturati… anche se Cirocco riteneva che la mascella fosse ancora a posto. La bocca era gonfia, gli occhi ridotti a due strette fessure.

Lei sospirò, e guardò il fumetto spiegazzato. La copertina proclamava "La Maga di Gea", e mostrava la sua vecchia nave, il Ringmaster, negli spasimi dell'agonia. Anche dopo tanto tempo, una raffigurazione come quella continuava a causarle dispiacere.

Si trattava di un libro a senso unico, nel quale tutti i personaggi possedevano già un nome che non poteva essere modificato dall'acquirente. La maggior parte dei libri di Conal risultavano invece predisposti per l'attribuzione del proprio nome all'eroe.

Erano personaggi familiari. C'era Cirocco Jones, e Gene, e Bill, e Calvin, e le sorelle Polo, e Cornamusa il Giovane, e Maestrocantore.

E, naturalmente, qualcun altro.

Cirocco chiuse il libro e inghiottì per liberarsi dal bruciore che le ristagnava in fondo alla gola. Poi si sdraiò sull'amaca e incominciò a esaminarlo attentamente.

— Hai davvero intenzione di leggerti quell'affare? — chiese Cornamusa.

— Non si può leggere. Non ci sono le parole. — A dire il vero Cirocco non aveva mai veduto un libro come "La Maga di Gea", ma ne capiva il principio di funzionamento. I colori avvampavano o lampeggiavano o scintillavano, e al tocco davano una sensazione di umido. Immersi nell'inchiostro c'erano microscopici frammenti di fumetto. Quando si toccava una tavola, i personaggi in essa presenti pronunciavano le loro frasi. Effetti sonori avevano sostituito i vecchi suoni onomatopeici a stampa, tipo zing, pow, wamm e le urla di vario genere.

Il dialogo era anche peggio di come si era espresso Conal a La Gata, e lei si limitò a guardare le figure. La vicenda era abbastanza facile da seguire.

E, a grandi linee, era persino accurata.

Vide la sua astronave avvicinarsi a Saturno. Ecco la scoperta di Gea, una nera ruota orbitante di milletrecento chilometri. Poi la nave veniva distrutta, e l'equipaggio riemergeva all'interno del planetoide dopo un periodo di sogni bizzarri. Facevano un viaggio su una specie di dirigibile, si costruivano un'imbarcazione, discendevano il fiume Ofione, incontravano i titanidi. Cirocco era misteriosamente in grado di cantare la loro lingua. Il gruppo veniva coinvolto nella guerra contro gli Angeli.

I personaggi fottevano molto più di quanto lei non ricordasse. C'erano scene assai sensuali fra Cirocco e Gaby Plauget, e anche fra Cirocco e Gene Springfield. L'ultima era inventata di sana pianta, e la prima era fuori sequenza.

Ognuno di loro era armato fino ai denti. Portavano più armi di un intero battaglione di mercenari. Tutti gli uomini erano rigonfi di muscoli, anche peggio di Conal Ray, e tutte le donne avevano mammelle grosse come cocomeri che continuavano a prorompere dalle striminzite strisce di cuoio cui era affidato il compito di contenerle. Il gruppo incontrava mostruose creature che Cirocco non aveva neanche mai sentito nominare, e si lasciava alle spalle nient'altro che sanguinolenti grumi di carne.

A un certo punto la cosa si faceva interessante.

Vide Gaby, Gene e se stessa arrampicarsi su per i giganteschi cavi che portavano al mozzo di Gea, a un'altezza di seicento chilometri. A un certo punto loro tre si accampavano, e cominciava l'inghippo. Sembrava instaurarsi un triangolo erotico, con Cirocco implicata con tutti e due i suoi compagni. Lei e Gaby parlottavano accanto al fuoco dell'accampamento scambiandosi frasi d'imperituro amore, roba come "Oh, Dio, Gaby, mi piacciono le tue mani sulla mia umida passera bollente!".

La mattina dopo — sebbene Cirocco ricordasse che il viaggio era durato molto più a lungo — durante la loro udienza presso la grande Dea Gea, a Gene veniva offerto il posto di Mago. Egli chinava umilmente la testa in segno di accettazione, e Cirocco lo afferrava per i capelli, gli tirava indietro la testa e gli squarciava la gola da un orecchio all'altro. Il sangue traboccava sulla pagina, e lei con un calcio si toglieva sdegnosamente dai piedi la testa di Gene. Gea — che era molto più schifosa di come Cirocco se la ricordava — nominava Cirocco Maga, con Gaby come perfida assistente.

C'era un sacco di altra roba. Cirocco sospirò e chiuse il libro.

— La sai una cosa? — disse. — Può anche darsi che sia sincero.

— È quello che pensavo.

— Potrebbe semplicemente essere uno sciocco.

— Be', lo sai anche tu qual è la punizione per la stupidità.

— Già. — Buttò via il fumetto, raccolse uno dei secchi di legno e gettò dieci litri di acqua gelata in faccia a Conal.

Egli riprese i sensi lentamente. Si sentiva scuotere e pizzicare, ma erano sensazioni lontane. Non ricordava neppure la propria identità.

Alla fine si rese conto di essere nudo, e prigioniero oltre ogni speranza di fuga. Le sue gambe erano divaricate e non poteva muoverle. Non riuscì a veder nulla finché Jones non gli sollevò a forza una delle palpebre incrostate di sangue. Questo gli causò dolore. Una cinghia gl'immobilizzava la testa, e anche quella gli faceva male. In effetti, sentiva male dappertutto.

Proprio davanti a sé aveva Jones, seduta sopra un secchio rovesciato. Gli occhi di lei erano scuri e profondi come non mai, mentre lo esaminava freddamente. A un certo punto non ce la fece più a sopportarli.

— Mi vuoi torturare? — Le parole gli uscirono confuse.

— Sì.

— Quando?

— Quando mi racconti una bugia.

I suoi pensieri si muovevano torpidi come colla, ma qualcosa nel modo in cui lei lo guardava lo stimolò a trarne un'espressione compiuta.

— Come farai a sapere se ti sto mentendo? — le chiese.

— Questa è la parte più difficile — riconobbe.

Impugnò un coltello, glielo rigirò davanti al viso. Poi gli appoggiò delicatamente il filo della lama sopra il piede, e pian piano tirò verso sé. Non vi fu dolore, ma apparve una linea di sangue. Lei sollevò il coltello, e attese.

— Affilato — azzardò lui. — Molto affilato.

Lei annuì, e posò il coltello.

Poi si tolse il sigaro di bocca, scrollò via un po' di cenere, e soffiò sulla punta finché quella non avvampò con violenta intensità. Portò l'estremità incandescente a circa mezzo centimetro dal piede.

Sulla pelle incominciò a formarsi una vescica, e stavolta lui se ne accorse: non era per niente come con il coltello.

— Sì — disse Conal. — Sì, sì, ho capito!

— No, invece, ancora non hai capito. — E continuò inflessibile.

Lui cercò di muovere il piede entro i legami che lo immobilizzavano, ma apparve da dietro la mano del titanide ad afferrarlo saldamente. Conal si morse le labbra, distolse lo sguardo; ma non poté fare a meno di tornare a guardare. Cominciò a urlare, e continuò a farlo per un tempo interminabile, e il dolore non accennò mai a diminuire.

Anche quando lei ritrasse la sua mano — dopo cinque, dieci minuti? — il dolore rimase. Conal singhiozzò disperatamente, a lungo.

E ancora i suoi occhi andarono a fissarsi laggiù. La pelle era carbonizzata in un'area di quasi due centimetri di diametro. Poi guardò la donna, e vide che di nuovo lo stava fissando, impassibile non meno d'una pietra. Egli la odiava. Non aveva mai odiato niente e nessuno come adesso odiava lei.

— È durato venti secondi — annunciò Jones.

Pianse, quando si rese conto che lei era sincera. Cercò di annuire, voleva assicurarle che aveva capito il senso di quella prova, che venti secondi erano un tempo davvero breve, ma non riuscì a controllare la propria voce. Lei aspettò.