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Posai un momento il fascicolo e riflettei. George Kukarov: gestore di un locale notturno e assassino. Aveva perfettamente senso, quel tipo di senso che desta il segugio interiore di Dexter e lo fa salivare, guaire eccitato e fremente dal desiderio di essere sguinzagliato dietro alla volpe. Anche il Passeggero, in segno d’assenso, sbatté le ali, che frusciarono con voluttà, come se dicessero: Sì, è lui. Stanotte, insieme… Adesso…

Percepii i raggi della luna filtrare dalla finestra e attraversarmi la pelle, penetrare dentro di me e scuotere quel brodo oscuro che è la mia mente, facendo affiorare deliziosi pensieri… e, man mano che il profumo di quel brodo interiore si diffondeva nell’aria notturna, mi parve di vederlo, legato al tavolo, che si contorceva e agitava, in preda allo stesso, soffocante terrore che aveva suscitato in chissà quanti… e vidi il gioioso coltello levarsi…

Poi si materializzò il pensiero di Lily Anne, e la luna non mi parve più così luminosa e il sussurro della lama svanì. Il corvo del neonato sé di Dexter gracchiò: Mai più. E la luna venne oscurata dalla nube argentea e vaporosa di Lily Anne, il coltello venne rinfoderato e Dexter tornò alla sua vita piccolo-borghese, mentre Kukarov era di nuovo libero e pronto a compiere i crimini più efferati.

Ovviamente il Passeggero passò al contrattacco, in perfetta sintonia con la mia mente razionale. Siamo seri, Dexter, esordì il mio amico, cantilenando sommessamente le sue ragioni. Possiamo forse permettere che predatori simili agiscano indisturbati? Lasciare che quei mostri vaghino liberi per le strade, quando abbiamo il potere di fermarli in un modo assai piacevole e definitivo? Possiamo davvero ignorare la sfida?

Pensai di nuovo alla promessa fatta in ospedale, cioè che sarei diventato un uomo migliore. Addio, Demone Dexter… ero diventato papà Dex, interamente dedito al benessere di Lily Anne e della mia nascente famiglia. Per la prima volta la vita umana mi parve un bene raro e prezioso, nonostante in giro se ne vedesse parecchia, e per la maggior parte fallisse invariabilmente nel dimostrare il suo valore. Eppure avevo promesso a Lily Anne che sarei cambiato, e l’avrei fatto.

Osservai la cartella con i fascicoli sulle mie ginocchia. Mi invocava, tenera e seduttiva, implorandomi di cantare con lei e intonare la nostra melodia sotto la luna… invece no. I gorgheggi della mia neonata coprirono tutto, in un continuo crescendo. Allora infilai con sicurezza il fascicolo nel distruggidocumenti e andai a letto.

L’indomani mi presentai al lavoro leggermente più tardi del solito, avendo accompagnato a scuola Cody e Astor. In passato era compito di Rita. Ora era tutto cambiato, naturalmente; mi trovavo nell’Anno Primo dell’Epoca d’Oro di Lily Anne. Nel futuro immediato sarebbe sempre toccato a me, almeno finché lei non fosse cresciuta abbastanza da poter essere trasportata sul sedile di un’auto. Se ciò voleva dire che non sarei più andato a lavorare con il canto del gallo, come sacrificio mi parve decisamente accettabile.

La faccenda si fece più impegnativa quando entrai in ufficio e scoprii che qualcun altro, al posto del Diligente Dexter, si era assunto l’onere di portare le ciambelle… e che non ne era rimasto più nulla, a parte una scatola di cartone unta e strappata. Ma chi se ne importa delle ciambelle, se la vita stessa è così dolce? Mi misi quindi al lavoro, con la gioia nel cuore e una canzoncina sulle labbra.

Per una volta non ricevetti nessuna affannosa chiamata che mi intimava di precipitarmi sulla scena del crimine e, per la prima ora e mezza, riuscii a smaltire un bel po’ di lavoro d’ufficio. Chiamai anche Rita, soprattutto per accertarmi che Lily Anne stesse bene e non fosse stata rapita dagli alieni, e quando mi rassicurò che era tutto okay, le dissi che nel pomeriggio sarei passato a trovarle.

Ordinai forniture, catalogai resoconti, insomma riorganizzai per bene la mia vita professionale. Certo, tutto ciò non compensava l’assenza delle ciambelle, ma mi sentii comunque molto soddisfatto di me stesso: Dexter detesta il disordine.

Poco prima delle dieci ero ancora ben avvolto nella mia nuvoletta rosa di autosoddisfazione, quando il telefono sulla scrivania squillò. Alzai la cornetta con un allegro: — Pronto, qui Morgan! — per venire ricompensato dalla ruvida voce di mia sorella, Deborah.

— Dove sei?

Domanda piuttosto inutile, pensai. Se infatti le stavo parlando da un telefono collegato alla mia scrivania da un lungo filo elettrico, dove avrei mai potuto essere? Pare proprio vero: i cellulari distruggono i tessuti cerebrali.

— Sono qui, all’altro capo del telefono — risposi.

— Vediamoci nel parcheggio — disse, e riattaccò prima che potessi protestare.

Incontrai Deborah vicino alla sua auto di servizio. Era appoggiata al cofano che mi fissava, impaziente e corrucciata, così feci una mossa strategica e decisi di attaccare per primo. — Perché mai dovevamo vederci qui? — chiesi. — Hai uno splendido ufficio, dotato di sedie e aria condizionata.

Deborah si spostò dal cofano e armeggiò in cerca delle chiavi.

— Il mio ufficio è infestato — disse.

— Da che cosa?

— Da Deke — rispose. — Quel viscido e ottuso figlio di puttana non mi lascia mai sola.

— Non deve lasciarti sola — osservai. — È il tuo socio.

— Mi sta facendo andare fuori di testa — continuò lei. — Posa il culo sulla mia scrivania e se ne sta seduto lì, in attesa che gli salti addosso.

Come immagine mi parve piuttosto forte: Deborah che si sedeva alla scrivania e finiva addosso al suo nuovo socio. Ma nonostante la scena fosse decisamente vivida, non riuscivo a coglierne il senso. — Perché dovresti saltare addosso al tuo socio? — domandai.

Mia sorella scosse il capo. — Forse ti sarai accorto di quanto sia stupidamente belloccio — fece. — Se no, sei l’unico in tutto il fottuto palazzo. Deke compreso.

Me n’ero accorto, ovviamente, ma non capivo che cosa avesse a che fare il suo aspetto con la nostra discussione. — Okay — dissi.

— Me ne sono accorto. E allora?

— Allora pensa che gli salterò addosso anch’io, come tutte le altre donnine che ha conosciuto — spiegò. — Che vomito. È più muto di una pietra e se ne sta seduto lì, sull’angolo della mia scrivania, a passarsi il filo in quella cazzo di dentatura perfetta in attesa che gli dica che cosa fare. Se lo fisso due secondi di più, gli faccio esplodere quella testa di merda. Salta in macchina.

Deborah non era mai stata una che maschera i propri sentimenti, ma nonostante tutto, quella mi parve una vera e propria sfuriata e, mentre saliva in macchina e girava la chiave nel cruscotto, rimasi un istante interdetto. Il motore stava andando su di giri; mia sorella, per farmi capire che era di fretta, diede un colpetto al clacson e io balzai fuori dalle mie fantasticherie, direttamente sul suo sedile. Non avevo ancora chiuso la portiera che eravamo già schizzati in strada, fuori dal parcheggio.

— Non penso che ci segua — dissi, mentre Deborah si infilava nel traffico con l’acceleratore a tavoletta. Non rispose. Sterzò bruscamente per evitare un autocarro carico di angurie e fuggì a tutta velocità dalla centrale e dal suo socio.