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Deborah si alzò. — Se questa fosse l’ultima delle sue cazzate, sarei la donna più felice del mondo — disse. — Vieni.

Stava già camminando in corridoio, dalla parte opposta di Deke, e ancora una volta ogni mia protesta sarebbe stata irrilevante. La seguii dunque con un sospiro, chiedendomi dove avesse imparato questo suo modo di fare, forse sul Manuale di management per aspiranti bulldozer.

La raggiunsi davanti all’ascensore. — Chiedere dove stiamo andando è troppo, vero? — feci.

— Da Tiffany Spanos — disse, pigiando due o tre volte il pulsante di discesa. — La sorella maggiore di Tyler.

Mi ci volle un momento, ma quando le porte dell’ascensore si aprirono, me ne ricordai. — Tyler Spanos — dissi, seguendola nella cabina. — La ragazza scomparsa insieme a… uhm… Samantha Aldovar.

— Già. — Le porte si chiusero e cominciò la discesa. — Il Ritardato ha parlato con Tiffany della sorella. — Immaginai che con il termine “Ritardato” si riferisse a Deke, e annuii. — Gli ha detto che per un po’ Tyler si era fissata con il gotico e a una festa ha incontrato questo tipo, un gotico integralista.

Ho sempre condotto una vita morigerata, ma so che il gotico è una specie di movimento in voga tra adolescenti complessate e fastidiosamente depresse. A quanto mi risulta, consiste nell’andare in giro pallidi e vestiti di nero, e forse ascoltare musica techno-pop europea, sbavando davanti ai DVD di Twilight. Non mi sembrava che c’entrasse molto con gli integralisti. Ma la fantasia di Deborah non aveva confini.

— Posso chiederti che cosa intendi per “gotico integralista”? — domandai umilmente.

Deborah mi lanciò un’occhiata. — Quel tipo è un vampiro — disse.

— Sul serio? — feci, e ammetto che la cosa mi sorprese. — Di questi tempi? Qui a Miami?

— Già — fece, e le porte dell’ascensore si aprirono. — Ha pure i canini appuntiti — aggiunse, uscendo.

Mi affrettai a seguirla. — Allora stiamo andando a trovare questo tipo? — chiesi. — Come si chiama?

— Vlad. Un nome d’effetto, eh?

— Vlad e poi?

— Non lo so.

— Ma sai almeno dove vive? — domandai speranzoso.

— Lo troveremo — dichiarò, e si diresse verso l’uscita.

Decisi che quand’è troppo è troppo. La presi per un braccio e lei si voltò a fissarmi. — Deborah — le dissi — si può sapere che cosa diavolo stiamo per fare?

— Ancora un minuto in compagnia di quel decerebrato tutto muscoli e mi sarebbe passato di mente — rispose. — Devo uscire di qui. — Si divincolò dalla mia stretta, ma io la trattenni.

— Anch’io come tutti gli altri non vedo l’ora di fuggire terrorizzato dal tuo socio — dissi. — Ma dobbiamo trovare qualcuno di cui non sappiamo né il cognome né dove vive. Dove andiamo quindi?

Deborah tentò di nuovo di liberarsi e stavolta ci riuscì. — In un Internet café — dichiarò. — Non sono stupida. — A prima vista per stupido passavo io, che la seguivo nel parcheggio come uno schiavetto.

— Il caffè lo offri tu — dissi a voce piuttosto bassa, mentre le correvo dietro.

C’era un Internet café a pochi isolati di distanza, così in un batter d’occhio mi ritrovai seduto di fronte a una tastiera con una tazza di buon caffè in mano e un’impaziente Deborah che si agitava al mio fianco. Mia sorella è una tiratrice scelta, e senza dubbio sarà dotata di molte altre qualità, ma metterla davanti a un computer è come chiedere a un asino di ballare la polka. Infatti, molto saggiamente, lasciò a me il controllo delle ricerche su Google.

— Okay — feci. — Posso cercare il nome “Vlad”, ma…

— Odontoiatria cosmetica — disse seccamente. — Non fare il coglione.

Annuii; in effetti era la mossa più furba, ma dopo tutto l’investigatrice capo era lei. Dopo qualche istante, avevo una lista con dozzine di nominativi di dentisti di Miami, tutti che praticavano odontoiatria cosmetica. — Devo stamparla? — chiesi a Debs.

Mia sorella la guardò e si morse il labbro così forte da farmi credere che presto anche lei avrebbe avuto bisogno di un dentista. — No — rispose, afferrando il cellulare. — Mi è venuta un’idea.

L’idea doveva essere davvero top secret, perché non me la disse, ma chiamò un numero che aveva memorizzato nella rubrica veloce e dopo pochi secondi sentii: — Parla Morgan. Dammi il numero di quel dentista della Scientifica.

Scarabocchiò nel vuoto, per farmi capire che le serviva una penna. Ce n’era una vicino alla tastiera e gliela passai, insieme a un pezzetto di carta raccattato dal cestino.

— Okay — disse. — Dottor Gutmann, si chiama. Ah-hah. — Scrisse il numero e chiuse la comunicazione.

Lo chiamò subito. Parlò per un minuto con una centralinista, poi notai che batteva il tempo con il dito e dedussi che dovevano averla messa in attesa con una musichetta. Infine il dentista prese la linea.

— Dottor Gutmann — fece Deborah. — Qui parla il sergente Morgan. Mi serve il nome di un dentista della zona che possa aver affilato i canini a un tipo perché somigli a un vampiro. — Gutmann disse qualcosa che la sorprese. Debs scarabocchiava sul pezzo di carta e intanto diceva: — Ah-hah. Ho capito, grazie. — Poi richiuse il cellulare. — Ha detto che ci può essere un solo dentista in città così cretino da fare una cosa simile. Il dottor Lonoff di South Beach.

Lo individuai rapidamente nella lista. — Sta proprio dietro Lincoln Road — osservai.

Deborah si era già alzata e mi aspettava fuori dalla porta. — Avanti — disse, e ancora una volta il Diligente Dexter si mise in marcia e la seguì.

12

L’ufficio del dottor Lonoff si trovava al piano terra di un palazzo relativamente antico, situato in una traversa a un paio di isolati dal Lincoln Road Mail. Si trattava di uno di quegli edifici in stile semidéco che una volta infestavano South Beach, graziosamente restaurato e dipinto di un luminoso color verdino. Passammo davanti a una scultura geometrica che sembrava una lezione su come fare sesso in un bidone di ferraglia, finché non raggiungemmo una porta che annunciava: Dottor J. LONOFF: ODONTOIATRIA COSMETICA.

— Immagino sia questo — dissi, cercando di imitare David Caruso in CSI: Miami.

Deborah mi lanciò un’occhiataccia e aprì la porta. Il receptionist era un afroamericano magrissimo, rasato e con dozzine di piercing alle orecchie, al naso e alle sopracciglia. Portava un camice color lampone e una collanina d’oro. Un cartello sulla scrivania recitava: LLOYD. Al nostro ingresso ci rivolse un radioso sorriso e disse: — Salve! Posso aiutarvi? — nello stesso tono di: “Comincia la festa!”.

Deborah estrasse il distintivo. — Sono il sergente Morgan, della polizia di Miami. Ho bisogno di parlare con il dottor Lonoff.

Il sorriso di Lloyd si fece ancora più radioso. — Al momento è impegnato con un paziente. Potete aspettare un paio di minuti?

— No — fece Deborah. — Devo parlargli adesso.

Lloyd parve un po’ confuso, ma non smise di sorridere. Aveva denti grandi, bianchissimi e perfettamente regolari. Se erano opera del dottor Lonoff, aveva fatto davvero un buon lavoro. — Potete anticiparmi di che cosa si tratta?

— Si tratta di me che torno con un mandato e controllo il suo registro dei farmaci, se non si fa trovare qui nel giro di trenta secondi — dichiarò Deborah.

Lloyd si leccò le labbra, esitò un istante, infine si alzò. — Vado ad avvisarlo che siete arrivati — disse, e scomparve oltre una parete curva, nel retro dell’ufficio.

Il dottore anticipò la deadline dei trenta secondi di due secondi netti. Comparve ansimando da dietro la parete: si asciugava le mani in una salvietta e sembrava distrutto. — E voi chi diavolo siete… e che cosa c’entra il mio registro dei farmaci?