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Deborah gli si parò davanti e lo fissò. Per essere un dentista sembrava piuttosto giovane, all’incirca sulla trentina, e a dire il vero pareva un po’ troppo gonfio, come se fosse più dedito al sollevamento pesi che alle otturazioni.

Anche Deborah doveva averlo notato. Lo squadrò dalla testa ai piedi, poi domandò: — È lei il dottor Lonoff?

— Sì — rispose, ancora trafelato. — Lei chi diavolo è?

Mia sorella mostrò un’altra volta il distintivo. — Sergente Morgan, della polizia di Miami. Devo farle qualche domanda su un suo paziente.

— Le dico io che cosa deve fare — dichiarò l’uomo con l’autorità che gli permetteva la sua professione. — Smetterla di fare la soldatessa d’assalto e spiegarmi che succede. Ho un paziente che mi attende in poltrona.

La mascella di Deborah si irrigidì e, conoscendola, mi preparai a un paio di round di lotta verbale; lei si sarebbe rifiutata di rivelare ogni dettaglio, perché erano affari della polizia, mentre lui si sarebbe rifiutato di farla accedere ai suoi archivi, perché i dati medici sono protetti da privacy, e sarebbero andati avanti così per un po’, a giocare carte sempre più alte, con me che li guardavo, sperando che la partita si interrompesse almeno in tempo per la pausa pranzo.

Stavo già per accomodarmi in poltrona con una copia del “Golf Digest” tra le mani, quando Deborah mi sorprese. Trasse un profondo respiro e disse: — Dottore, due ragazzine sono scomparse e l’unica pista che ho è quella di un tipo con i denti affilati come i vampiri. — Respirò un’altra volta e lo guardò negli occhi. — Ho bisogno di aiuto.

Non mi sarei ulteriormente stupito se il soffitto si fosse squagliato rivelando un coro di angeli che cantavano Il ballo del qua qua. Non avevo mai visto Deborah aprirsi a tal punto e mostrarsi così vulnerabile e mi chiesi se avessi dovuto indirizzarla a una consulenza psicologica. Anche il dottor Lonoff dovette aver avuto lo stesso pensiero. La fissò incredulo per qualche lungo secondo, poi lanciò un’occhiata a Lloyd.

— Non credo mi sia possibile — disse. Sembrava ancora più giovane dei trent’anni che dimostrava. — I dati sono riservati.

— Questo lo so — fece Deborah.

— Un vampiro? — ripeté Lonoff. Si abbassò il labbro inferiore, mostrando i denti. — Canini come questi?

— Esatto — confermò Deborah. — Come zanne.

— È una corona speciale — spiegò allegramente. — Me le ha fatte un messicano, un vero artista. Per il resto si segue la procedura standard di qualsiasi corona e i risultati sono di grande effetto, lo devo ammettere.

— Le avete messe a tanta gente? — Deborah apparve lievemente sorpresa.

Il dentista scosse il capo. — A un paio di dozzine — disse.

— Cerchiamo un giovane — continuò mia sorella. — Probabilmente intorno ai vent’anni.

Lonoff contrasse le labbra e rifletté. — Allora saranno stati tre o quattro — disse.

— Si chiama Vlad.

Il dottore sorrise e scosse il capo. — Non mi risulta nessuno con quel nome. Ma non mi stupirebbe se si facessero chiamare tutti così. Diciamo che è un nome in voga tra tutta quella gente.

— Perché, sono in tanti? — domandai. L’idea che a Miami ci fosse una gran quantità di vampiri, veri o falsi che fossero, mi inquietava un po’… anche solo per motivi estetici. Il total black andava di moda a New York, l’anno scorso.

— Be’, non sono in tanti. Almeno quelli che vogliono farsi i canini appuntiti — osservò Lonoff, dispiaciuto. Poi alzò le spalle.

— Comunque hanno i loro locali, i rave dedicati, eccetera. E praticamente un mondo.

— A me basta trovarne uno solo — intervenne Deborah, sfoggiando la sua antica impazienza.

Lonoff la guardò e annuì, tendendo inconsciamente i muscoli del collo. Per poco non gli scoppiò il colletto della camicia. Si morse ripetutamente le labbra e infine, come se avesse riflettuto, disse:

— Lloyd, dagli una mano a cercarli sui dati delle fatture.

— Okay, dottore.

Lonoff porse la mano a Deborah. — Buona fortuna… ehm… sergente?

Mia sorella gliela strinse. — Esatto.

Il dottor Lonoff la strinse un po’ più a lungo del dovuto e, proprio mentre pensavo che Deborah gliel’avrebbe strappata via, lui sorrise e aggiunse: — Se le interessa, le potrei sistemare quell’overbite.

— Grazie — disse Debs, ritirando la mano. — Ma mi piace così.

— Ah-hah — fece Lonoff. — Be’, in questo caso… — Diede a Lloyd una pacca sulla spalla, e soggiunse: — Aiutali tu. Ho un paziente che mi attende. — E dopo aver lanciato un ultimo, bramoso sguardo alla dentatura sporgente di Deborah, si voltò e scomparve di nuovo nel retro.

— Mettiamoci qui — fece Lloyd. — Al computer. — Indicò la scrivania a cui sedeva quand’eravamo entrati. Lo seguimmo.

— Avrò bisogno di alcuni parametri — disse.

Deborah mi guardò perplessa, come se avesse parlato in una lingua sconosciuta… e per lei suppongo fosse così, visto che non masticava il computerese.

Perciò, ancora una volta, ruppi l’imbarazzante silenzio e la salvai. — Sotto i ventiquattro — dissi. — Maschio. Canini appuntiti.

— Grande — fece Lloyd, e si mise a digitare sulla tastiera.

Deborah lo scrutava impaziente. Dall’altra parte della sala d’attesa, in un angolo vicino alle riviste, c’era un acquario con pesci di mare. Mi parve un po’ affollato, ma forse alle bestiole piaceva così.

— Trovato — disse Lloyd. Mi voltai in tempo per vedere un foglio uscire ronzando dalla stampante. Lloyd lo prese e lo porse a Deborah, che glielo strappò di mano e lo scrutò. — Ci sono soltanto quattro nomi — fece il ragazzo, con lo stesso tono dispiaciuto del dottor Lonoff, e io mi domandai se ricevesse una percentuale su ogni paio di zanne.

— Merda — disse Deborah, scorrendo la lista.

— In che senso merda? — chiesi. — Volevi più nomi?

Diede un colpetto con le dita al foglio. — Il primo nome — esordì. — Acosta. Ti dice qualcosa?

Annuii. — Mi dice guai. — Joe Acosta era una figura di spicco della politica locale, un consigliere di contea della vecchia scuola, che continuava a esercitare la sua influenza come si faceva una cinquantina d’anni prima a Chicago. Se il nostro Vlad era suo figlio, potevamo aspettarci una doccia di merda. — Che sia un altro? — domandai speranzoso.

Deborah scosse il capo. — L’indirizzo è lo stesso. Cazzo.

— Forse non è lui — fece Lloyd, fiducioso.

Lei lo fulminò, e il suo radioso sorriso svanì, neanche gli avesse sferrato un calcio nell’inguine. — Forza — fece Debs, precipitandosi alla porta.

— Grazie per l’aiuto — dissi a Lloyd, ma lui si limitò ad annuire, come se mia sorella gli avesse succhiato via tutta la gioia di vivere.

Quando la raggiunsi, era già in macchina con il motore acceso. — Forza — gridava dal finestrino. — Salta su. — Partì ancora prima che avessi chiuso la portiera.

— Sai — le suggerii, allacciandomi le cinture — potremmo lasciare Acosta per ultimo. Potrebbe benissimo essere uno degli altri.

— Tyler Spanos va alla Ransom Everglades — disse. — Dunque gira con la crema della crema. I fottuti Acosta sono la crema della crema. Dunque è lui.

La sua logica era stringente, così non dissi nulla. Mi misi comodo e lasciai che guidasse a una velocità supersonica in mezzo al traffico di metà mattina.

Percorremmo la MacArthur Causeway che ci condusse alla 836 verso la LeJeune, dove svoltammo a sinistra per Coral Gables. La casa di Acosta era situata in una zona dei Gables che, se fosse stata costruita oggi, sarebbe diventata una sorta di comunità chiusa. Gli edifici, come quello di Acosta, erano grandi e numerosi, costruiti in stile spagnolo con massicci blocchi di roccia corallina. Il prato sembrava quello di un campo da golf e di fianco si scorgeva un garage a due piani, collegato alla casa da un passaggio coperto.