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Deborah parcheggiò di fronte alla casa e, prima di spegnere il motore, si fermò un istante per trarre un grosso respiro.

Mi domandai se fosse ancora vittima di quell’inconsueto tracollo emotivo che l’aveva resa più sensibile e indulgente. — Sicura che lo vuoi fare? — le chiesi. Mi guardò. Non era più l’impetuosa e determinata Deborah che conoscevo così bene. — Be’, sai com’è — feci. — Acosta potrebbe rovinarti la vita. È un questore.

Scattò di colpo, neanche le avessi tirato uno schiaffo, mentre la sua familiare mascella entrava in azione. — Non mi importa se quello è Dio — ringhiò, e fui lieto di vederla tornare alla determinazione di un tempo. Scese dall’auto e si avviò a grandi passi sul marciapiede, diretta verso la porta d’ingresso.

Scesi anch’io e la seguii. Quando la raggiunsi, stava suonando il campanello. Non ci fu risposta. Debs ondeggiava nervosamente da un piede all’altro. Era sul punto di suonare una seconda volta, quando la porta si spalancò e una donna bassa e corpulenta, in divisa da cameriera, ci scrutò attentamente.

— Sì? — disse, con un forte accento centroamericano.

— C’è Robert Acosta, per cortesia? — fece Deborah.

La cameriera si inumidì le labbra, gli occhi che saettavano da una parte all’altra. Infine, con un tremito, scosse il capo. — Che cosa volete da Bobby? — chiese.

Deborah mostrò il distintivo e la donna trattenne vistosamente il fiato. — Devo fargli alcune domande — spiegò Debs. — È qui?

La cameriera deglutì, ma non disse nulla.

— Devo parlargli — continuò mia sorella. — È molto importante.

La donna deglutì un’altra volta e lanciò un’occhiata alle nostre spalle.

Anche Deborah si voltò a guardare. — In garage? — chiese. — È in garage?

Alla fine, la domestica annuì. — El garaje — sussurrò veloce, come se temesse di essere sentita. — Bobby vive en el piso segundo.

Deborah mi lanciò un’occhiata interrogativa. — Nel garage. Abita al secondo piano — tradussi. Per qualche ignoto motivo, Debs a scuola aveva scelto di studiare il francese, pur essendo nata e cresciuta a Miami.

— Adesso c’è? — chiese alla domestica.

La donna annuì, rigida. — Creo que si. — Si inumidì nuovamente le labbra e poi, in preda a un moto convulso, chiuse la porta, quasi sbattendola.

Deborah scosse il capo. — Di che cosa avrà avuto così tanta paura?

— Di essere espulsa? — azzardai.

Mia sorella ringhiò. — Joe Acosta non assumerebbe mai un clandestino… uno come lui può ottenere una green card per chi gli pare e piace.

— Forse temeva di perdere il lavoro.

Debs si voltò a osservare il garage. — Ah-hah — fece. — E forse ha paura di Bobby Acosta.

— Be’… — esordii, ma lei si era lanciata in azione, e puntava verso il retro della casa. Quando la raggiunsi, era già nel vialetto. — Avviserà Bobby che siamo qui — dissi.

Deborah alzò le spalle. — E’ il suo lavoro. — Si bloccò davanti al doppio garage. — Dev’esserci un altro ingresso, magari tramite una scala.

— Forse sul fianco — suggerii. Avevo fatto qualche passo verso sinistra, quando udii un boato e la porta del garage si sollevò. Tornai indietro. Dall’interno proveniva un debole ronzio che si faceva più forte man mano che il garage si apriva, finché non comparve una moto. In sella c’era un tipo magro, sulla ventina, che la teneva in folle e ci scrutava.

— Robert Acosta? — disse Deborah. Avanzò di un passo verso di lui, mostrandogli il distintivo.

— Fottuti poliziotti — sibilò il ragazzo. Fece andare la moto su di giri e partì, puntando volutamente dritto verso Deborah. Il veicolo balzò in avanti, contro mia sorella, che si scansò per miracolo. Infine Acosta si lanciò in strada a tutta birra e, quando Deborah si rialzò, era scomparso.

13

Nel corso della mia carriera presso il dipartimento di polizia di Miami avevo sentito usare il termine “marea di merda” in più di un’occasione. Eppure, a esser sincero, non avevo mai assistito realmente al fenomeno naturale in questione prima che Deborah emettesse un mandato di cattura nei confronti dell’unico figlio di un influente consigliere di contea. Nel giro di cinque minuti ci trovammo con tre macchine della polizia e il furgoncino di una rete televisiva parcheggiati esattamente di fronte alla casa, accanto all’auto di Debs. Sei minuti dopo, mia sorella era al telefono con il capitano Matthews. La sentii dire soltanto: — Sissignore. Sissignore. Nossignore — per tutti i due minuti di conversazione e, quando riattaccò, aveva la mascella talmente serrata che pensai non sarebbe più riuscita a nutrirsi di alimenti solidi.

— Merda — disse, sempre a denti stretti. — Matthews ha ritirato il mio mandato.

— C’era da immaginarselo — commentai.

— Eccolo qui — fece Debs. Guardò prima me, poi la strada e aggiunse: — Oh, merda.

Seguii il suo sguardo. Deke scendeva dalla macchina, sollevandosi i pantaloni e sorridendo radioso alla giornalista accanto al furgone che si stava spazzolando i capelli prima delle riprese. La donna si interruppe e ricambiò. Lui annuì con gli occhi e si avviò noncurante nella nostra direzione. La giornalista lo osservò ancora un istante, si leccò le labbra e tornò a spazzolarsi con rinnovato vigore.

— Tecnicamente è il tuo socio — osservai.

— Tecnicamente è un coglione decerebrato — replicò Debs.

— Ehi — fece Deke, venendoci incontro. — Il capitano mi ha detto di tenerti d’occhio e assicurarmi che tu non faccia altri casini.

— Come cavolo fai tu a capire se faccio casino? — ringhiò Deborah.

— Ehi, be’… lo capisco. — Alzò le spalle. Tornò a osservare la giornalista. — Insomma, mi accerto che tu non ti metta a parlare con la stampa eccetera, no? — Le strizzò l’occhio. — Comunque, ora starò insieme a te — disse. — Controllerò che tutto proceda regolarmente.

Per un attimo pensai che Debs avrebbe sparato insulti omicidi a raffica gettando a terra Deke e incendiando il curatissimo prato degli Acosta. Invece, avendo ricevuto lo stesso ordine dal capitano, si comportò da buon soldato. Il senso di disciplina prevalse, così si limitò a lanciare una lunga occhiata a Deke e disse: — Okay. Controlliamo gli altri nomi della lista. — Poi si avviò docilmente alla macchina.

Deke si tirò di nuovo su i pantaloni e la guardò mentre si allontanava. — Bene — fece e la seguì. La giornalista l’osservò passare con un’espressione distratta, rischiando quasi di finire addosso al microfono del suo capo.

Tornai in centrale a bordo di un’auto di servizio guidata da un poliziotto di nome Willoughby che sembrava fissato con i Miami Heat. Al mio arrivo, avevo imparato un sacco di cose sui playmaker e su una roba che si chiamava pick and roll. Sono certo che erano tutte informazioni interessanti e che un giorno o l’altro mi sarebbero potute tornare utili, ma fui comunque molto lieto di immergermi nuovamente nell’afa pomeridiana e raggiungere il mio piccolo ufficio.

E lì rimasi, a sbrigarmela con le mie faccende per il resto della giornata. Per pranzo scoprii un nuovo locale, non troppo lontano, specializzato in falafel. Purtroppo era anche specializzato in una pessima salsa con peli scuri intrappolati dentro, così tornai dalla pausa con lo stomaco che non era al massimo dell’umore. Mi dedicai a lavori di routine, sistemai qualche pratica e mi crogiolai nella mia solitudine fino alle quattro, quando Deborah si avventurò nel mio ufficio. Stringeva una pesante cartella e sembrava devastata quanto il mio stomaco. Avvicinò una sedia con il piede e ci si stravaccò sopra senza parlare. Ridussi a icona il file che stavo leggendo e la guardai.